Sunday, February 27, 2011

Il paese dell'eterna primavera


Scusate, sono qui da piu’ di una settimana, e ancora non ho parlato della California, ne’ fatto giustizia di tutti gli stereotipi ad essa associati. Incominciamo con il clima. La mia esperienza e’ stata piuttosto sfortunata finora: ho visto pioggia e bufera, basse temperature (“as cold as it gets”, il massimo del freddo), ma anche alcune belle giornate terse.
Allora. La california si trova piu’ o meno all’altezza del Nordafrica, quindi ci si immagina un clima simile al nostro mediterraneo, con inverni miti ed estati afose. Giusto solo in parte. In realta’, nell’oceano scorre una corrente di acqua gelida che scende direttamente dall’alaska e ha un paio di simpatiche conseguenze: per prima cosa, l’acqua e’ sempre freddissima (ecco perche’ i surfisti dei telefilm hanno sempre la muta). Scordatevi le nuotate italiche, in queste spiagge bellissime e’ gia’ tanto se si riesce a bagnare i piedi. Secondo, l’oceano porta anche un’aria molto fresca, niente a che vedere con il nostro scirocco o l’umidita’ estiva della Val Padana. Non c’e’ vento e il cielo e’ meravigliosamente terso e cristallino, ma, in pratica, non fa caldo.
Mi sono documentato e ho scoperto che su tutta la costa la temperatura estiva raramente supera i 26-27 gradi, e di notte scende verso i 15. Scordatevi maglietta e sandali di sera, il maglioncino e i pantaloni lunghi non li toglie nessuno. D’estate. L’inverno e’ invece mite: nelle belle giornate si toccano anche i 20 gradi, mentre la media si assesta sui 15, di notte si scende verso i 7-8. Durante il giorno al sole si sta bene e si puo’ mangiare fuori, ma alla sera fa freddo e serve la giacca. Non male come posto per svernare, davvero.
Il clima e’ leggermente piu’ caldo verso il confine messicano (San Diego) e molto piu’ fresco verso San Francisco (ci sono 800km tra le due citta’), dove sembra che la temperatura stia tutto l’anno tra i 10 e i 20 gradi. A complicare le cose, c’e’ un simpatico effetto chiamato “June gloom”: nelle mattine d’estate, nuvole basse formate dall’evaporazione marina coprono la costa fino a una decina di chilometri all’interno. Quindi d’estate ci si sveglia con la nebbia, che resta almeno fino all’ora di pranzo, per poi dissolversi nel (tardo) pomeriggio; le giornate terse sono invece tipiche dell’inverno e delle mezze stagioni.
Infine, come in tutti i paesi caldi, il riscaldamento nelle case e’ approssimativo, e si assesta sui 15 gradi (all’interno!) quando fuori ce ne sono 5. Di conseguenza, posso sopravvivere in casa solo con tre maglioni oppure stando sotto le coperte. Concludo che il clima californiano e’ ottimo se pensato come un sostituto dell’inverno, decisamente deludente se paragonato ad un’estate italiana. In questo paese si vive in un’eterna primavera.

Saturday, February 26, 2011

La Diaspora


Gli ultimi giorni sono stati molto intensi qui a Santa Barbara: ho fatto il mio talk mercoledi’ scorso, che e’ andato molto bene, soprattutto grazie al mio tono scanzonato e alle domande di un professore tedesco molto in gamba, che faceva la parte di Peppino nei film di Toto’. Ho parlato per un’ora e mezza, e sembra che ci siano molte persone interessate ad applicare i metodi che ho sviluppato (sto gia’ analizzando dati per un gruppo di Valencia), quindi sono contento.
Volevo pero’ tornare su una questione annosa, e iniziare a farlo citando dati oggettivi. Al KITP in questo momento sono attivi tre programmi: noi (evoluzione virale e di microbi), astrofisici alle prese con ammassi di galassie, e un terzo gruppo che studia fenomeni di turbolenza nei fluidi. Tra i 3 programmi, ho contato 5 italiani. Oltre a me, c’e’ Marco, un mio vecchio compagno di dottorato che dopo essere rientrato ed aver resistito eroicamente all’universita’ di Milano, e’ ora ricercatore a Parigi. C’e’ Luca, uno degli organizzatori del nostro programma, professore a Napoli da piu’ di 25 anni, che ha appena accettato di dirigere un prestigioso istituto di ricerca a Parigi perche’ “non ne puo’ piu’ dell’Italia e non so che futuro dare ai miei dottorandi e laureandi”. Suppongo che li spedisca all’estero utilizzando la sua chiara fama internazionale (e’ uno che viaggia tantissimo) e i suoi numerosi contatti. C’e’ Salvatore, che sta a Roma. E c’e’ Paolo, da 10 anni a Helsinki. Totale: estero batte Italia 4 a 1.
C’e’ di piu’: 5 partecipanti su piu’ di 100 non sono molti (i tedeschi o i francesi ci superano). Si potrebbe pensare che gli italiani che lavorano in Italia non siano interessati a partecipare ad un programma di ricerca ambito, perfetto per instaurare collaborazioni e praticamente gratuito, in un istituto diretto da un premio nobel. Oppure che queste tre direzioni di ricerca non siano particolarmente sviluppate in Italia (non ho dati in proposito, anche se so che in biofisica siamo molto indietro). Sta di fatto che lo spaccato della ricerca italiana che si vede da Santa Barbara e’ desolante, e basta sedersi a tavola per ascoltare una sequela di storie dell’orrore che sembrano fatte per spaventare i bambini: giovani brillanti che dopo essere stati ripetutamente bocciati a Caserta vengono coperti d’oro in Danimarca, altri che cercano di rientrare e scappano dopo pochi anni, anche accettando di fare un passo indietro nella carriera, perche’ spaventati dall’immobilismo dell’accademia italiana.
Non racconto niente di nuovo, ma mi sembra che l’emorragia di cervelli (e vi assicuro che la gente che ho incontrato qui e’ veramente in gamba) stia raggiungendo livelli da allarme rosso (in Francia il 30% dei ricercatori e’ italiano). Queste persone emigrano, contribuiscono alla crescita delle nazioni che investono su di loro, si portano nel cuore l’Italia e, suppongo, anche molto livore. Come dice Riccardo Giacconi, premio nobel per la fisica nel 2002 (carriera in america, paese dove si e’ naturalizzato), da noi “i giovani Michelangelo non hanno muri per dipingere e roccia per scolpire”. E cosi’ i talenti si sprecano.

Tuesday, February 22, 2011

La pizza in America


Lunedi’ era festa nazionale, e tutte le mense del campus erano chiuse. Per pranzare, mi sono avventurato nel quartiere studentesco di isla vista, adiacente all’universita’, e ho deciso per la pizzeria “Woodstock” (non “Marechiaro” o “Posillipo”). Chiaramente niente forno a legna, ma un pizzaiolo che faceva volteggiare in aria con maestria della una pizza appena spianata mi ha spinto a fidarmi.
Le differenze della nostra pizza con quella american style (almeno nei posti economici per studenti) sono subito emerse. Primo, non ci sono camerieri. Si ordina alla cassa e ti chiamano quando e’ pronto. Fin qui facile. La prima domanda inaspettata e’: dimensione? Come dimensione? Si’ perche’ la pizza puo’ essere di 8 pollici, 12, 16 fino alla gigante da 20 pollici, fatta per essere condivisa da tante persone. Abbandonando ogni speranza di conversione decimale dei diametri, opto per la piccola (corrisponde a circa 20cm di diametro) e scopro che posso scegliere i miei ingredienti: quelli piu’ economici come prosciutto e funghi costano 59cents l’uno, quelli piu’ raffinati (gamberetti e olive) 99cents. Pomodoro e “real mozzarella” inclusi nel prezzo della base, 6dollari e 49. Per i piu’ pigri ci sono delle combinazioni gia’ fatte, che pero’ non hanno nulla a che vedere con le nostre capricciosa o napoletana, piuttosto si sbizzarriscono in un sovraccarico assortimento tematico (“misto carne”, “pesce e frutti di mare”, “frutta e verdura”).
La nuova domanda inaspettata e’: come la vuoi la pasta? Come la voglio? Si’, la vuoi di farina normale o integrale? Ah, normale grazie. La pizza non viene poi appiattita verso l’esterno con i polpastrelli, ma la pasta spianata viene rimboccata verso l’interno come l’orlo di un pantalone per formare la crosta, che si trova ad essere ripiena di pomodoro.
Il risultato finale e’ discreto (almeno per quelli come me che amano le pizze spesse), niente di speciale ma molto meglio degli orrori che ho visto in nord europa. E nella pizzeria Woodstock, appropriatamente, suona “Hotel California”.

Monday, February 21, 2011

Disabilita' moderne


Un professore di San Diego che sembra un incrocio tra Ozzy Osbourne e il grande Lebowski (si’, ancora lui, commentero’ piu’ approfonditamente a breve) mi dice “in SoCal (Southern California) non si puo’ andare a piedi per piu’ di 500m”, mentre mi accompagna a casa. In effetti, in una cittadina fatta interamente di villette sparse e zone verdi, le distanze sono enormi. Tuttavia, l’attitudine verso gli appiedati mi ricorda quella che spesso si ha verso i disabili, i ciechi, le persone sulle sedia a rotelle: poverini, non hanno qualcosa che tutti gli altri possiedono, e che serve per sopravvivere in questo mondo, facciamo uno sforzo per aiutarli.
Ed e’ cosi’ che da quasi una settimana, tutti i giorni qualcuno mi da’ un passaggio a casa: persone anche molto importanti allungano la strada per tornare a casa di 10km o piu’ per scodellarmi davanti alla mia porta. Quando la gente lascia all’istituto si affaccia al mio ufficio e mi chiede se voglio essere accompagnato a casa. Non ha la macchina, poverino. Posso andare a casa con Alan alle 5, con Ariel alle 6, con Matt alle 6.30, oppure restare fuori a cena con Santiago, o Forest, o Seth, e sicuramente uno di loro provvedera’ al mio rimpatrio. Ho affittato una bicicletta, e ora che il tempo sembra bello vorrei usare la pista ciclabile dietro casa, almeno per fare un po’ di movimento.
Eh si, perche’ Santa Barbara e’ una comunita’ molto ricca e istruita, non si vedono molte persone sovrappeso. Immagino pero’ che tra i campi di cotone dell’Alabama o quelli di mais dell’Iowa, tra i deserti dell’Arizona o le praterie del Nebraska, questo dipendenza dalle macchine abbia un impatto molto forte sulla ciccia e sulla salute delle persone. E anche sulla vita sociale. I centri di aggregazione, per chi non vive vicino alle “downtown”, cioe’ alle zone dello shopping urbano (i centri storici non esistono in questa parte del mondo), si riducono ad essere grandi parcheggi con negozi attorno. O centri religiosi, ma questa e’ un ‘altra storia. Infine, guidare su strade larghe, con una quantita’ infinita di spazio per parcheggiare, su macchine che sembrano salotti con le ruote, in un traffico quasi inesistente e comunque molto rispettoso e disciplinato, rende l’uso della macchina molto lontano dallo stress e dall’aggressivita’ incivile del traffico italiano, uno dei simboli concreti della nostra arretratezza.

Sunday, February 20, 2011

La crudelta' dei quartieri residenziali


La zona in cui abito, tra Santa Barbara e Goleta, dove sta il campus della UCSB (University of California at Santa Barbara), e’ un quartiere residenziale chiamato More Mesa, dall’omonimo parco che degrada nell’oceano. Parco non e’ molto preciso, piuttosto una “zona non edificabile”, una specie di pratone selvaggio con erba alta e qualche albero, dove gli uccelli possono nidificare. La zona verde arriva fino ad una bassa scogliera di arenaria molto friabile: una serie di ripidi scalini permettono di raggiungere la spiaggia, dove ci si puo’ anestetizzare i piedi nell’acqua gelata dell’oceano pacifico e vedere uccelli dal lungo becco ricurvo.
Il quartiere di More Mesa e’ residenziale e abitato da persone benestanti: una fila di casette ad un piano, ognuna con il suo giardinetto e garage, esattamente come si vedono nei film. Le strade non sono parallele perche’ il terreno e’ collinoso, ma larghe e quasi completamente prive di traffico, la vegetazione lussureggiante e profuma di mediterraneo.
Supponiamo pero’ per un momento che un italiano approdato in California e ancora un po’ sotto l’effetto del jet lag si svegli verso le sei e mezza di mattina  e voglia fare colazione. E che si avvii alla disperata ricerca di cibo nel suddetto quartiere residenziale, magari con in tasca una cartaccia da buttare. L’italiano sopracitato trovera’: piscine di quartere in numero di una, campi da golf: uno, maneggi con cavalli amichevoli: due, uomini in tuta, ciabatte e pantaloncini che portano i cani a fare pipi’: innumerevoli, occhiate sospette da parte di vecchi verso giovani forestieri con i capelli lunghi: qualcuna. Cestini: zero. Bar: zero. Negozi: zero. Rivendite di ogni tipo: zero.
All’italiano non resta quindi che arrivare allo stradone (25 minuti a piedi), continuare sullo stradone “per un isolato”, che e’ lungo quasi un km, e arrivare ad una specie di centro commerciale, dove c’e’ un supermercato, un barbiere, una lavanderia automatica, due benzinai, una farmacia, e, udite udite, un bar, o “diner”, come lo chiamano qui.
Una volta attraversato l’immenso parcheggio, il suddetto bar e’ in realta’ molto bello: produzione propria di caffe’, grande scelta, colori vivaci, wifi gratis (ovviamente), finto camino con vero fuoco (a gas), stairway to heaven in sottofondo, atmosfera hippie, targhe e cartelli stradali appesi alle pareti, gente in muta da sub e piedi nudi evidentemente appena tornata da una mattinata di surf. Il tacito accordo anglosassone che un cappuccino da 3 dollari ti da diritto ad un tavolo per un numero indefinito di ore e’ valido anche qui, quindi mi piazzo… e lavoro. Ho una presentazione da preparare per mercoledi e non ho voglia di stare a casa. Domani, lunedi’, e’ il “president day”, una festa americana, l’universita’ sara’ chiusa ma io saro’ in ufficio.






Saturday, February 19, 2011

Metodo Scientifico


Invenzione italiana, ubriacatura della societa’ moderna, contestato dai romantici, e vagheggiato dalle scienze non esatte, il metodo scientifico, basato su un circolo virtuoso di ipotesi e verifiche sperimentali, ha sicuramente contribuito all’avanzamento della nostra societa’ (e alle scarse capacita’ relazionali degli scienziati). Ma come si traduce, praticamente, nel nostro complicato ventunesimo secolo?
Gli americani, che non sono sicuramente il popolo che amo di piu’ su questo pianeta, hanno inventato la formula che sto sperimentando al KITP, e che e’ sicuramente tra le piu’ vincenti che abbia visto, dato il modo moderno di fare scienza (mmm… dovro’ ritornare su questo argomento per spiegarmi meglio). L’idea e’ semplice: si prende un gruppo di scienziati interessati alle stesse problematiche, li si sradica dai loro uffici e dalle loro attivita’ quotidiane, li si mette in un bel posto, gli si da’ un nuovo ufficio da dove possano lavorare e rassicurarsi, si offre loro del buon caffe’ gratis, molte lavagne di ardesia (non di plastica), poltrone e divani in stanze panoramiche, li si fa parlare delle loro cose davanti a tutti, ma uno alla volta, in un lungo talk informale dove tutti ti possono interrompere ad ogni momento (che viene filmato e messo a disposizione in podcast in tempo reale), si organizzano attivita’ ricreative dove si possa socializzare e regredire allegramente tutti insieme.
Vantaggi:
1)   Si evitano i ritmi tremendi da conferenza dove si sentono 20 talk in un giorno e non si riesce ad andare a fondo
2)   Si permette a tutti di portare avanti le attivita’ quotidiane, che vengono ridotte, ma non azzerate.
3)   Si va a fondo, c’e’ tempo per spaccare ogni capello in quattro e capire fin nei minimi dettagli le idee di qualcun altro, se si e’ interessati.
4)   Ci si sente in vacanza: nel giro di pochi giorni si capisce chi puo’ aiutarti nel tuo lavoro e chi ti sta simpatico. Con i primi si discute in ufficio, con i secondi si va a cena o a camminare in montagna, si diventa amici e si inizia a collaborare.
Svantaggi:
1)   Ci vuole tempo. Il programma dura 12 settimane. Io sono qui per 5. Stare meno di tre non ha molto senso, ci vuole un po’ per entrare nel giro. Ancora una volta si assume che uno scienziato sia un monaco dedito interamente al suo lavoro. E se avesse dei bambini piccoli?
Ok, e’ un 4 a 1 secco.
Cosa serve per creare tutto questo? Una struttura organizzata. Personale dedicato: qualcuno che si occupi di visti, posti per dormire e gestisca il flusso di persone che vanno e vengono. Non oltre il proprio lavoro d’ufficio, qualcuno impiegato specificamente per questo. Un posto ameno e non troppo dispersivo. I fondi: ogni partecipante riceve 85 dollari al giorno per coprire le sue spese di vitto e alloggio, i professori e gli organizzatori di piu’. Burocrazia ridotta.
Ma in Europa, una cosa cosi’, e’ proprio impossibile?

Thursday, February 17, 2011

Il primo giorno di scuola


Non c’e’ niente di piu’ deprimente di svegliarsi nella nebbia quando dovresti essere nella parte del globo di cui tutti invidiano il clima. Il primo giorno di scuola inizia sotto una pioggerellina molto scozzese contro la quale sfodero tutte le armi affilate nei miei anni a Glasgow: giacca impermeabile, cappuccio da palombaro, scarpe in goretex, sguardo basso.
Nonostante il rimbambimento da fuso, mi rendo conto di non essere in Scozia. La temperatura e’ sopra i 10 gradi, la vegetazione e’ tipicamente mediterranea, e il terreno impregnato di acqua al mattino rilascia profumi incantevoli di eucalipto e pino (e di marijuana, che qui e’ legale, quando passo davanti ad una casa con serre sospette). Cammino per un km in un quartiere residenziale per ricchi, fino ad arrivare allo stradone a 8 corsie che attraversa la citta’. Nell’autobus, ragazzi dall’aspetto messicano e uomini dall’aspetto Big Lebowski (uno con tanto di accappatoio, giuro).
La fermata del bus e’ proprio davanti al KITP, l’istituto dove lavorero’. Organizzatissimi, sapevano che sarei arrivato, quindi in meno di un’ora mi danno ufficio (con tanto di nome sopra), accesso alla rete, casella postale, iniziano la procedura per il mio pagamento, mi indicano dove si puo’ noleggiare una bici, e mi danno una tazza per il caffe’ personale, anche questa con il mio nome. Apprendo che il mio ufficio e’ invidiato, perche’ da’ direttamente sull’oceano (anche se con il brutto tempo non rende). Il personale e’ molto gentile e espansivo, in maniera americana ma, mi sembra, non ipocrita.
L’istituto e’ molto dinamico, ci sono tre programmi come il mio in questo periodo: noi (evoluzione virale e nei batteri), altri che studiano gli ammassi di galassie e altri ancora interessati alla turbolenza nei fluidi. Grandi lavagne, rigorosamente di ardesia, ovunque. Caffe’-beverone di diversi tipi, a volonta’ (il mio preferito per ora, e’ la marca “rizzapelo”, hair raiser).
La giornata si svolge attorno uno-due seminari al giorni, dove qualcuno parla in maniera interattiva, o in altre parole, viene interrotto continuamente se non e’ chiaro. C’e’ molta partecipazione, e sicuramente si impara molto, anche se le sessioni nella meeting room diventano infinite. Per il resto, e’ tutto lasciato alla buona volonta’ dei partecipanti, circa una qurantina, che passano il tempo a raccontarsi la loro ricerca. Con molta passione e disponibilita’, devo dire.
Nel pomeriggio il tempo migliora e posso apprezzare la vista dal mio ufficio, che in effetti piu’ californiana non si puo: palme e oceano blu scuro. Il cielo e’ ora azzurrissimo, l’aria fresca invernale, ma si puo’ tranquillamente mangiare all’aperto al sole. Sembra che qui la temperatura stia tutto l’anno tra i 15 e i 28 gradi, anche se alla sera viene fresco. Incredibile l’effetto sull’umore di avere la combinazione di bel tempo e paese civile, cosi’ difficile da trovare in Europa.


Wednesday, February 16, 2011

Arrivato


Alla frontiera, una frotta di assistenti di ogni etnia possibile (ma tutti con accento americano) aiutano gli sperduti ed esausti turisti a formare file ordinate e controllano i documenti, dando consigli per superare gli arcigni poliziotti senza bisogno di ulteriori controlli, dando un’interessante dimostrazione post-moderna della lotta tra popolo e ordine costituito.
Il mio penare con l’ambasciata di Londra ha avuto un senso, perche’ vengo ammesso negli mirabolanti stati uniti senza battere ciglio, forte del mio sudato visto. Agli arrivi, facce asiatiche aspettano altri asiatici, e facce centroamericane servono clienti ai bar. Come tutti gli aereoporti americani, mi lascia un vago senso di delusione: un solo bar, uno scarno ufficio informazioni e una generica fermata del bus “long distance” dove dovrebbe fermarsi anche il mio. Orari, neanche l’ombra.
C’e’ nebbiolina e una quindicina di gradi, una specie di primavera in embrione, che qui dovrebbe corrispondere al brutto tempo. Mi compro per 15dollari un panino bisunto al manzo ordinando in spagnolo al messicano e aspetto il bus.
Da un minibus scende un ometto che assomiglia a Gianfranco Zola versione indio che offre un “servizio alternativo” per Santa Barbara, e parte mezz’ora prima del bus “ufficiale”, allo stesso prezzo. Accetto: i passeggeri sono tutti messicani, a parte un americano cieco. Un mondo nel mondo. Probabilmente questo servizio in Italia sarebbe completamente abusivo, mentre qui e’ regolarissimo e funziona in un regime di sana competizione dove i piccoli trasportatori senza sito internet cercano di rubare clienti alle grandi compagnie (infatti Zola mi ripetera’ 10 volte come dovro’ contattarli se vorro’ usare il loro servizio anche al ritorno).
Il pullmino passa attraverso larghe vie alberate, autostrade giganti frequentate da macchine giganti, spiagge deserte e umide di pioggia, e posti dal nome evocativo nella cultura pop, come Malibu o Santa Monica.
Dopo un’infinita’ di km, l’autostrada costiera corre lungo una serie di alture, che mi ricordano incredibilmente il Sud Italia: macchia, palme (tra cui i palos borrachos, quelle dal tronco sottile che si barcollano come ubriachi al vento), qualche cactus, un po’ stonato nella giornata uggiosa. Motel e centri commerciali tipo autogrill ad ogni pie’ sospinto, gli stereotipi dei film sono tutti veri.
Per Santa Barbara ci vogliono quasi tre ore. Scarichiamo il cieco a San Buenaventura, tra grandi frutteti e vivai. Visto che non ho idea di dove sia il mio indirizzo, mi faccio lasciare all’aereoporto di Santa Barbara, da cui un tassista algerino molto simpatico mi porta a casa di Linda, dove abitero’ per il prossimo mese.
Un paio di considerazioni:
1)   E’ facile sentirsi a casa qui, perche’ la natura e il clima ricorda l’Italia, e il melting pot estremo suggerisce che ci sia posto per tutti (almeno sulla carta).
2)    Il nuovo-nuovo della costa ovest mi sembra, ad una prima impressione del finto-vecchio della costa est. Almeno qui non ci provano.

Tuesday, February 15, 2011

dall'aereo


Gli aerei intercontinentali sono paffuti e scambiano una parte della loro agilita’ con le rotondita’ di una balena dei cieli, lenta e potente, in grado di trasportare una grande quantita’ di persone e oggetti a lunghissime distanze. Il Boeing 747 (quello che una volta si chiamava Jumbo Jet) ha due piani, 10 sedili per fila, e naviga tranquillo a 800km/h per i 9000km che separano Londra da Los Angeles. Senza fretta, mi riporta sulla Scozia, lambisce l’Islanda, sorvola il nord del Canada e poi si tuffa verso il midwest americano e le montagne.
La fauna e’ tranquilla e variegata, molti gruppi etnici sono rappresentati, a partire dall’indiano in fianco a me che da 8 ore non si muove, non parla e non fa pipi’. Questione di genetica o cultura? Nei lussuosi cubicoli della prima classe si intravedono persone di bell’aspetto che probabilmente riconoscerei se guardassi piu’ televisione, forse in viaggio verso la capitale del cinema americano e, quindi, mondiale.
Cosi’ come gli inglesi e gli olandesi, anche gli americani hanno facce facilmente riconoscibili, specialmente quelli di una certa eta’. Camicia sportiva in materiale da trekking, pantaloni stesso stile, giacchetta impermeabile tecnica e barba alla freud, perfettamente curata. Un simpatico mix tra un montanaro urbano e un aspirante esploratore, sguardo vispo e attitudine pratica di chi e’ piu’ attento alla comodita’ che alle convenzioni sociali. Leggermente meno formali di quelli della costa est, di primo acchito.
Nessuno parla. Il volo non e’ molto pieno, e’ bassa stagione. Tutti preferiscono vedersi l’ottimo assortimento di film offerto da british airways oppure consultare la cartina per emozionarsi sapendo che stiamo volando tra Winnipeg e Fargo (chiaramente coperte di neve).
Il viaggio sara’ ancora lungo. Dogana, un’ora di attesa, tre ore di autobus, taxi fino alla mia nuova casa, e un impegnativo tentativo di conversazione per cercare di non essere maleducato con la mia padrona di casa, per poi, spero, crollare a letto.