Tuesday, April 26, 2011

Conclusioni


Il volo di ritorno da Los Angeles e’ una piacevole routine, che mi attraversa senza emozioni, eccetto forse una leggera incazzatura nel realizzare troppo tardi la zona dei negozi negli aeroporti americani: prima delle gate, e non dopo come pensavo. Passata la sicurezza, trovo solo lunghi corridoi grigi e deprimenti, qualche macchinetta con bibite e merendine, un negozio di souvenir che non avrebbe sfigurato nello squallore tardosovietico, e un tristissimo bar con panini gia’ fatti.
Meglio guardarsi indietro e cercare di fare un bilancio di questi due mesi. Mi e’ piaciuto? Si’, moltissimo. Un po’ perche’ era tutto nuovo. Un po’ perche’ lo stile di vita della costa ovest e’ piu’ rilassato, piu’ a contatto con la natura e meno snob di quello pseudoeuropeo di Boston o New York. Un po’ perche’ il lavoro e’ andato molto bene e ho imparato un sacco di cose. Un po’ perche’ ho visto posti meravigliosi e fatto splendide camminate.
Ora, e’ facile scadere nello stereotipo dell’America come il paese delle possibilita’, dove tutti possono farcela e sfondare, o come la terra dei grandi spazi e della natura selvaggia. E’ tutto vero, ma non bisogna dimenticare il risvolto della medaglia: vivere a 100km dal primo supermercato e a 10 dai vicini puo’ essere un po’ alienante; e soprattutto, il sistema americano, che ingurgita la totalita’ della vita di una persona, e restituisce ricchezza e fama ai piu’ capaci, ubriacandoli di possibilita’ e  assorbendoli nel tessuto molle della societa’. I valori della solidarieta’, dell’aiuto ai piu’ deboli, dello stato sociale (vedi la sanita’ pubblica, quasi inesistente) rimangono confinati alla vita privata e alla volonta’ personale. La macchina capitalista, elevata alla sua massima potenza, prospera ricompensando i migliori e scartando i peggiori, o quelli che non servono piu’. In ogni campo.
Come al solito, le persone semplici sono state quelle con cui piu’ mi sono sentito a mio agio. Gli americani dell’Ovest sono aperti e simpatici, ospitali e generosi (se fossi nero o messicano sarebbe diverso, forse). Niente a che vedere con i nord europei da cui discendono. Continuo a pensare che essere (troppo) ricchi sia un privilegio inaccettabile in un mondo in cui un miliardo di persone muore di fame, e che la ricchezza che questi bravi signori producano vada pesantemente ridistribuita, come e piu’ di quanto avviene in Europa. E che un eccesso di liberta’ porti ad una penuria di uguaglianza, con il rischio di grandi tensioni sociali.
L’altra grande (ri)scoperta e’ stata che, da bravo Mediterraneo, amo il cielo azzurro e il caldo, e che gli inverni scozzesi sono duri a passarsi. La mia tolleranza al calore e’ molto superiore di quella verso il freddo o la pioggia, e bisognera’ che faccia qualcosa per garantirmi un posto al sole per i prossimi mesi freddi.
Infine, grazie a tutti quelli che hanno seguito queste pagine, iniziate quasi per caso per tranquillizzare una madre ansiosa, e poi cresciute sull’onda della mia eterna tentazione della scrittura, spesso annegata nel mare delle incombenze quotidiane. Molti di questi post sono stati scritti con gli occhi semichiusi dal sonno; ma perseguiro’ il progetto di correggerli con calma e il sogno di pubblicarli da qualche parte. Mi piacerebbe sentire cosa ne pensate. Potete mandarmi ogni tipo di feedback, commento, critica, stroncatura o suggerimento all’indirizzo marcojmorelli@gmail.com Grazie per avermi seguito.
Marco

Thursday, April 21, 2011

Los Angeles


La citta’ degli angeli conta circa 15 milioni di abitanti, sparsi su un’area di cento km di lunghezza, stretta tra montagne lussureggianti e l’oceano. Questo mostro urbano e’ diviso in una miriade di quartieri, alcuni famosi altri meno, con scarsissimo mescolamento: i ricchi con i ricchi, i neri con i neri, i messicani con i messicani. Il quartiere piu’ famoso e’ Hollywood, sembra gia’ un po’ di conoscere questi posti, visti e stravisti nei film e telefilm prodotti qui: la scritta a caratteri cubitali sulla collina, il Viale del Tramonto (Sunset Boulevard), Mulholland Drive cosi’ come raccontata da David Lynch, Beverly Hills, Bel Air.
Le dimensioni sono tali da scoraggiare ogni spostamento in bicicletta o con mezzi di trasporto (peraltro molto carenti): l’unica via d’uscita e’ avere una macchina e macinare miglia e miglia nella ragnatela di autostrade a sei corsie che percorrono la citta’ in lungo e in largo. Fortunatamente, nonostante il traffico sia molto intenso e molto piu’ arrogante che nel selvaggio west, non scende mai a livelli italiani.
Io sto a Santa Monica, che e’ un quartiere sull’oceano, per straricchi. Sono a casa di Katie, che a sua volta e’ ospitata da amici di famiglia (altri ricchi ebrei, ovviamente), che pero’ questa settimana sono via, e ci lasciano soli con Clementina, la domestica messicana, e Yufi, un cane amichevole e peloso. Spesso alla mattina altre domestiche messicane vengono a chiacchierare con Clementina e portano i cani dei loro padroni a giocare con Yufi, cosicche’ ognuno, in questo mondo “basso”, sia contento nelle loro vite parallele a quelle dei ricchi, in una mirabile simbiosi. Tra parentesi: il mio look latino spopola tra le signore messicane, che mi lusingano paragonandomi ad Antonio Banderas, ad un cantante mariachi con stivali da vaccaro e ad un attore di soap opera messicano. Chiaramente, le facce yankee interessano meno.
Los Angeles non ha un “centro”, un posto dove la gente passeggia per strada. E’ soprattutto una citta’ residenziale, con pochi condomini ma enormi quartieri formati da case squallide, casette, belle case, ville, villone o megaville da miliardari. A Santa Monica, per farsi un’idea, una casa costa dai 2 ai 4 milioni, e sfigura rispetto alle grandi proprieta’ di Bel Air o di Beverly Hills; in compenso, a Sudest, ad una cinquantina di km di distanza, ci sono zone molto malfamate, famose per gang di persone di colore (vedi la musica “gangster rap”) e per il traffico di droga. L’inquinamento e’ palpabile: nell’aria c’e’ una foschia milanese che impedisce di vedere lontano nonostante il cielo sia blu, e contrasta incredibilmente con i cieli tersi di cui l’Utah va giustamente fiero.
Ogni quartiere e’ un po’ una citta’ a se’ (molti infatti non fanno parte del comune di Los Angeles vero e proprio), con i suoi negozi, e la sua atmosfera. Tutti molto simili, in verita’, con la vicinanza al mare o alle colline a far salire di valore gli immobili. L’Universita’ piu’ grande, dove faccio il mio talk, sta nel quartiere di Westwood, a soli 10km dalla spiaggia, popolato da bianchi abbastanza ricchi.
In generale, la citta’ e’ cara, e la grande maggioranza della sua economia gira intorno al settore dell’”entertainment”, o divertimento: film, telefilm, videogiochi, un industria che ha in Hollywood la sua capitale mondiale e crea un indotto che da’ lavoro a milioni di persone: imprenditori, ragionieri, avvocati, giu’ giu’ fino a guardie del corpo, autisti e personale di servizio. Passeggio nella zona degli studios, oberata di turisti, che scattano fotografie alla “wall of fame”: la collezione di almeno 2000 artisti che hanno lasciato l’impronta delle loro mani sul marciapiede, all’interno di una stella disegnata. Riconosco celebrita’ di ieri e di oggi. Quando mi fermo a prendere una bibita, al tavolino vicino al mio si svolge una scenetta che ho visto solo nei film: ragazze carine che si specchiano e si rifanno il trucco, cercando la perfezione per un provino imminente. Concentrate su se stesse, per alcune di esse la giornata di oggi puo’ cambiare loro la vita, o almeno garantire qualche soldo per arrivare a fine mese. Per la strada si vendono le cosiddette “star maps” che non sono, come pensavo, mappe celesti per osservare il firmamento di notte (di giorno? in citta’?), bensi’ delle cartine che spiegano dove le celebrita’ di Hollywood abitano e si fanno vedere, insieme ai posti dove alcuni film famosi sono stati girati. La densita’ e’ impressionante. In pochi isolati si puo’ passare dalla location di ghostbusters alla villa di Jack Nicholson al ristorante dove Jennifer Aniston ama fare colazione. Il popolino le compra e insegue la fugace vista di un’attrice o di un attore a cui magari chiedere un autografo o una fotografia. Nessuna sorpresa, poi, se le star si nascondono. Tra l’altro, tutta la parte della citta’ che ho visto ha quell’atmosfera un po’ milanese, eleganza ostentata, raffinatezza snob e ricchezza diffusa che fa molto Santa Barbara e contrasta un po’ con l’alternativa San Francisco. I lavori piu’ umili sono quasi tutti in mano agli ispanici e ai neri, e non c’e’ certo posto qui per i cowboy (o vaccari): tornando da due settimane molto rurali, in cui la sera avevo rami nei capelli, fango sugli scarponi e graffi sui gomiti, mi sento un po’ fuori posto. Io preferisco la campagna.
La citta’ e’ punteggiata di cose interessanti da visitare e da bei musei, se si ha la pazienza di guidare per qualche decina di km nel traffico: la maggior parte delle collezioni di arte derivano da lasciti di persone straricche, che magari vi aggiungono  la loro villa con parco per destinarla ad uso pubblico. Il sistema sembra funzionare bene: la villa degli Huntington, a Pasadena (dove c’e’ il Caltech di Feynman) e’ diventata una bellissima biblioteca con codici antichi, e il parco e’ stato trasformato in un giardino botanico. La collezione del petroliere Paul Getty e’ diventata un futuristico museo in cima ad una collina con viste spettacolari sulla citta’.
Rifletto su questo modello di musei, a confronto con quelli europei, prevalentemente statali, che spesso mostrano opere d’arte legate al territorio: qui il nucleo originario e’ una collezione che, per quanto grande sia, puo’ essere solo un piccolo museo. Insieme alle opere vengono lasciati anche dei soldi, che sono gestiti da una fondazione. La fondazione cerca di racimolare altri soldi con biglietti e investimenti, e convince altri ricchi a donare opere o verdoni, in cambio di un’imperitura targa nell’entrata principale. Le sovvenzioni private funzionano meravigliosamente: il numero di donatori oltre il milione o i 5 milioni di dollari e’ nutrito. 
E’ un po’ come nelle universita’: un ex-alunno fa carriera, diventa ricco e subito sponsorizza la costruzione di un nuovo edificio, o finanzia una posizione di dottorato a suo nome. Le mie esperienze con i musei statali di Los Angeles sono miste: bellissimo e enorme il museo di arte della contea, edifici progettati da Renzo Piano, tante installazioni moderne (sul tipo “la davo al mio falegname e con 30000 lire me la faceva meglio”), e tanta arte orientale; ma anche una villa di Frank Lloyd Wright, gestita da una scuola d’arte che stenta a trovare i fondi per restaurarla e fatica a racimolare abbastanza turisti per pagare le spese.
Un po’ come Londra, Los Angeles e’ una citta’ avvolgente e tentacolare, non bella ma viva, in cui si rischia di rimanere intrappolati perche’ tutto e’ a portata di mano. A differenza della capitale inglese pero’, il clima e’ ottimo (20-25 gradi tutto l’anno) e i deserti e le montagne sono vicini, se si ha voglia di prendere la macchina. Io non ci vivrei a causa di quella certa puzza sotto il naso diffusa tra la gente, ma posso capirne il fascino di chi ne ha cantato le lodi.   

La Valle della Morte


Prima del ritorno a Los Angeles c’e’  ancora la tappa alla valle della morte, un grandissimo parco naturale dal nome spettrale, a un centinaio di miglia da Las Vegas: non e’ lontana dai parchi desertici con cui ho iniziato il viaggio, creando un rassicurante senso di gita ad anello, con ritorno a casa.
A differenza di Joshua tree o del deserto Mojave, la valle della morte e’, appunto, una valle. Ampia, circondata da due catene di montagne alte fino a tremila metri, si estende per quasi 200 km e scende al di sotto del livello del mare, creando la depressione piu’ profonda degli stati uniti. Il nome deriva da una vecchia Il panorama e’ lunare e affascinante: pochi cespugli verdi spuntano ai bordi della strada, per lasciare il posto a formazioni rocciose con sabbie di colori diversi, che sembrano disegnare la tavolozza di un pittore, i contrasti sono impressionanti.
Al centro della valle c’e’ uno spartanissimo campeggio, giusto a fianco di una striscia di palme allungate intorno ad un ruscello (chiamato, molto appropriatamente, “fornace”). Siamo infatti in uno dei posti piu’ caldi del mondo, dove le temperature superano i 45 gradi per molti mesi all’anno: il primo aprile ce ne sono 36 (un po’ sopra la media), ma piacevoli, senza un filo di umidita’. Basta stare all’aria aperta per sentirsi la pelle e le labbra seccare, bisogna bere in continuazione, come ripetono i soliti cartelli terroristici e le numerose fontane a disposizione dei turisti.
Come mai fa cosi’ caldo, rispetto agli altri deserti che ho visitato (e dove ha nevicato)? L’altezza ha un certo ruolo: Joshua Tree era sopra i mille metri, mentre qui siamo al livello del mare; la valle chiusa crea poi una conca che concentra il calore in maniera micidiale.
Eppure, questo posto e’ stato abitato, seppur brevemente, da numerosi cercatori d’oro, insieme ad una fiorente attivita’ di estrazione di sali che venivano lentamente trainati nel mondo civile da carretti e muli. In fondo alla depressione si puo’ camminare su una distesa infinita e anche un po’ spettrale di sale biancastro (mischiato ad altri composti chimici), che nella luce del tramonto ricorda un po’ quelle immagini dell’aldila’, con le ombre che si confondono nella luminosita’ diffusa.
Le attivita’ minerarie sono cessate da tempo, e si trovano un po’ ovunque citta’ fantasma dove abitavano i minatori: diroccate, spettrali e molto ben descritte da pannelli illustrativi, sembra impossibile che migliaia di persone abitassero in questo forno lunare. D’altro canto, il parco e’ gigantesco, e servono diverse ore in macchina per percorrerlo tutto. Alcuni posti richiamano memorie cinematografiche e suggeriscono pellegrinaggi laici, come il bellissimo Zabriskie Point o il belvedere Dante’s View, 1500m sopra la valle. Quasi tutte le passeggiate risalgono canyon, a volte con qualche arrampicata avventurosa, seguendo il corso dell’acqua (che e’ presente probabilmente 10 giorni all’anno); altre, salgono su alti picchi, che ho tralasciato per evitare il mal di montagna da 3000m di dislivello. Ho dovuto saltare anche la visita ad un castello costruito nel mezzo della valle per evitare altri 150km di strada, peccato perche’ mi sarebbe piaciuto molto confrontarlo con l’Hearst Castle. In compenso, trovo per caso una mostra all’aria aperto di opere di un artista belga, illustrate da un gentilissimo vecchio signore con tanto di barba bianca, salopette jeans, camicia a quadrettoni e cappello di paglia, che sembra uscito da un film.
La valle della morte e’ un posto metafisico, in cui mi piacerebbe tornare con una jeep, visto che ci sono tantissime strade sterrate che corrono per centinaia di km e rivelano altre viste, camminate e citta’ fantasma nascoste alle masse. E due osservazioni su me stesso, che mi ero un po’ dimenticato stando in Scozia, ma che prepotentemente sono uscite fuori in questo ambiente: 1) Mi piacciono i deserti, anche piu’ delle foreste 2) Mi piace il caldo secco, che mi disturba molto meno del freddo e dell’umidita’.
























 

Wednesday, April 20, 2011

Las Vegas


Nello stato del Nevada il gioco d’azzardo e’ legale: ogni piu’ piccolo paese ha il suo casino’ dove si puo’ mangiare, dormire e passare ore ai tavoli del poker o della roulette. Ma e’ a Las Vegas che tutto questo trascende nel surreale.
La citta’ del vizio, e’ una cattedrale nel deserto, e il deserto non va inteso in senso figurato: una steppa arida e bollente, occasionalmente punteggiata da canyon rocciosi e spettacolari avvolge la citta’ per centinaia di km. Immaginate una metropoli di una ventina di km di diametro, un milione e passa di abitanti, una nutrita comunita’ di messicani e neri, palme spazzate dalla polvere, da cui tutto ad un tratto spunta una zona di costruzioni strambe e arzigogolate: grattacieli storti, piramidi, torri. La strip, dove si concentrano i casino’ piu’ famosi.
Io arrivo solo nel tardo pomeriggio, stanco dalla guidata e dalle passeggiata mattutina a Zion, non esattamente incline ad una notte folle. Infatti, prendo una cameretta in un motel in semiperiferia, lontano dal caos. Ma non posso non dare un’occhiata a questa meraviglia di cui tutti parlano: dopo una cena veloce dal messicano sotto casa, mi ripulisco e agghindo per la prima volta da due settimane e parto all’esplorazione della vita notturna.
Dopo qualche migliaio di km in mezzo al nulla, punteggiati solo da minuscoli paesi, entrare in una grossa citta’ e’ destabilizzante: dov’e’ il ristorante, la pompa di benzina? Da bravo provinciale, la molteplicita’ di soluzioni mi crea vertigine.
Arrivato alla strip parcheggio in uno dei casino’ (e’ gratis, per invogliare la gente a giocare) e inizia il divertimento; un vialone di 5 km dove mandrie di gente passeggiano, costellato da giganteschi edifici in cui si puo’ tranquillamente stare due giorni senza mettere il naso fuori: ristoranti, hotel, casino’, shopping mall sono presenti in ognuno di questi templi del consumismo. Ognuno ha un suo stile, tutti sono esagerati nel lusso e completamente finti. Ma l’abbondanza di plastica e cartapesta ha il suo fascino, nessuna ipocrisia o tentativo di essere stilosi, qui si e’ kitsch al 100% e ogni tamarrata e’ ammessa.
Sopra si dorme; ai piani inferiori si fa shopping e si gioca, su centinaia di tavoli, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno. Domino, baccarat, poker, qualsiasi altro gioco d’azzardo vi venga in mente e’ rappresentato. Le puntate sono immensamente popolari e partono da 25cents, e rappresentano bene l’utente medio dei casino’: migliaia di ragazzi e ragazze tirati a lucido, spesso con risultati desolanti “à la” mortadella strizzata, alcuni un po’ alticci, vecchietti con il bastone, coppie di mezza eta’, tutti in cerca di un sogno a buon mercato e di una riproduzione economica e americanamente corretta di altre realta’ che altrimenti risulterebbero completamente aliene.
Nei casino’ vedo riproduzioni di canali veneziani (con tanto di gondole e persone che pagano per fare un giro), fori romani, sfingi egiziane, vie parigine, isole tropicali, ognuno circondato da negozietti che invitano al consumo. Tutto finto, ma guardare e’ gratis, i ragazzotti del midwest in camicia di flanella o i vaccari del sud con gli stivali a punta sono in evidente visibilio. “Che posto fantastico” sono convinto stiano pensando.
Da tutto il Nord America partono voli per Las Vegas, spesso parte di pacchetti turistici fatti apposta per stare nel fine settimana: partenza venerdi’ sera, 2 notti in albergo, ritorno domenica sera. In fondo, siamo nel deserto e fa caldo (quasi 30 gradi in aprile), alla sera si sta bene quasi tutto l’anno. Nell’industria del divertimento ognuno puo’ trovare la propria dimensione: dai posti superesclusivi (pochi) a quelli popolari (moltissimi), qui non ci sono limiti ai soldi che si possono buttare via, dai centesimi ai milioni.
La prostituzione a Las Vegas e’, curiosamente, vietata (ma non nel resto del Nevada), e in generale l’erotismo e’ presente solo in tono minore: qualche ragazza che balla in  bikini, qualche croupier in reggicalze. Certo, all’occhio esperto non sfuggono le ragazze rifatte e disponibili, ma a a differenza di citta’ come Amsterdam o Amburgo, nella citta’ del vizio bisogna entrare in una zona legalmente grigia per ottenere sesso a pagamento.
Un altro business locale sono i matrimoni: qui ci si puo’ poi sposare molto facilmente, si va in un’agenzia specializzata con qualche centinaio di dollari e in quattro e quattr’otto ci si scambia gli anelli (con valore legale!), senza bisogno di code, testimoni o vestito bianco. In giro per la citta’ e per i dintorni si vedono quelli che hanno voluto il pacchetto deluxe con tanto di limousine, champagne e foto ricordo nella bellissima valle del fuoco, 70km fuori citta’.
La citta’ dei i sogni in offerta speciale, e’ un posto interessante, dove tornerei con piu’ calma, magari con altre persone. Non tanto per vedere altra cartapesta o perdere un altro dollaro, ma, per osservare, come in un acquario, come persone diverse rispondano al bombardamento di tentazioni di questo enorme circo stanziale.

Monday, April 18, 2011

Montagna hippie


Nel selvaggio west, i paesi non dicono molto. Niente storia, niente attrazioni, eccezion fatta per qualche trading post (i primissimi insediamenti stanziali nelle nuove terre: le baracche dove i nativi e i pionieri barattavano pelli per altri generi di consumo), che non sono niente di piu’ di qualche vecchio magazzino. Per il resto, gli insediamenti umani si riducono ad una fila di case polverose attorno ad una strada, qualche fast food, una pompa di benzina, un motel e un supermercato. Comodi per le necessita’ primarie dei viaggiatori, privi di ogni interesse dal punto di vista turistico. I paesi di montagna, pero’, sono un’altra storia.
In Europa, le zone montane non turistiche (cioe’ il 90% di quelle italiane) sono spesso posti mal collegati, economicamente depressi, abitati da persone che riteniamo non particolarmente aperte o acute, che devono fare i conti con un ambiente ostile, scarsi contatti con le grandi citta’, un clima rigido e uno stile di vita faticoso e pesante. Ma perche’ queste persone vivono, o continuano a vivere in questi posti poco ospitali? La risposta piu’ gettonata e’: perche’ ci sono nati. Perche’ e’ casa, spesso i luoghi sono molto belli, tranquilli ed a contatto con la natura, e dunque si fanno sacrifici per restare.
Il concetto e’ piuttosto diverso nell’America dell’ovest, che e’ stata colonizzata solo negli ultimi 150 anni. Qui, chi arrivava, voleva terra grassa da arare, coltivare, per farci scorrazzare mucche e cavalli, non arrampicarsi su vallate impervie e nevose. Chi andava a stare in montagna, dunque, era nella maggior parte dei casi chi non trovava di meglio (ma con tutto questo spazio, non era un caso frequente) oppure, negli ultimi tempi, chi ha vocazioni ascetiche, o misantrope, o semplicemente ama il contatto con la natura. Ecco perche’, tra Colorado e Utah, ho trovato diversi paesi montani piu’ alternativi di Woodstock.
Mancos, Moab, Springdale sono i nomi di alcuni dei paesi che ho attraversato, alcuni vicini ai parchi e quindi abbastanza frequentati, altri lontani da ogni attrazione, tutti abitati da post-hippie o contadini superbiologici che non inquinano, sono chiacchieroni ed estroversi, amano sperimentare cose nuove, propongono corsi di spiritualita’ e percussioni africane, fumano marijuana, producono birra in proprio, mangiano biologico e credono nella filosofia peace and love. Non tutti, per carita’, ma proprio tanti. Personaggi che da noi ti aspetteresti nelle grandi citta’, a contatto con le “nuove tendenze” e al riparo dai tradizionalismi conservatori, li trovi qui, dove piu’ ti aspetteresti la gente piu’ bacchettona e retriva. Ognuno ha un suo modo di tirare avanti decorosamente, spesso con una formula che lascia tempo libero per camminare in montagna, godersi la vita e dedicarsi alla propria “crescita”, lontano da ambizioni o avidita’ monetarie. Un mondo diverso, che da’ una colorazione del tutto inaspettata a queste montagne.

Thursday, April 14, 2011

Wicca


Apparentemente, ci sono zone della terra piu’ vicine alla cielo di altre. Non intendo fisicamente, non c’entra la quota, anche se alcune montagne rientrano nella categoria che ho in mente. Sto parlando piuttosto della presenza di una Natura, della sensazione metafisica che si prova quando si e’ sopraffatti dall’ambiente circostante, ci si sente piccoli piccoli, e si inizia a riflettere. Posti come l’Himalaya, i deserti, dove si rifugiavano gli asceti dei tempi passati, le isole fuori dalle rotte principali, ma anche le cime di monti, meglio se offrono uno stupendo panorama, infatti scelte puntualmente da vari monaci e anacoreti per fondare i loro conventi.
Posti isolati che ispirano sentimenti assoluti che, uniti alla mancanza di contatto umano, possono generare misticismo e follia (due facce della stessa mediaglia), producendo figure di grande saggezza, profondita’, e lontananza con la realta’.
La zona dei nativi Navajo, i deserti dell’Arizona e della California fanno parte della categoria, e i loro abitanti originari non sono immuni dal loro potere. Robusto e’ il filo che lega gli indiani alle forze elementali e naturali, sacralizzandole in una maniera sottile, attraverso rispetto e conservazione piuttosto che sacrifici cruenti, precedendo cosi’ di qualche millennio la consapevolezza ecologica che solo la distruzione del nostro pianeta ha fatto emergere nell’umanita’.
Nei miei giri ho ascoltato giovani indiane parlare di risparmiare i colibri’ perche’ non danno da mangiare e sono belli a vedersi (=sacri) e ho visto una rabdomante che recitava formule magiche (e si ingozzava con le mani) in un bar. Altri nativi mi hanno spiegato il senso (molto poetico) dei graffiti che si trovano sulle rocce: il piu’ bello e’ la mano tracciata con 4 segni a raggera (le dita) e una spirale che disegna il palmo e termina nel pollice, a significare che la vita, tortuosamente, ci fa diventare grandi e poi finisce.
Riflettevo che le grandi “civilita’ ”, dai romani, egizi, persiani in poi, hanno sempre cercato di domare ed asservire ai loro bisogni una natura preponderante e spesso ostile o pericolosa: il progresso era costituito dalla costruzione di una strada, di un ponte, dalla fondazione di una comunita’ urbana, dalla coltivazione di un campo, tutti atti protesi all’affermare la presenza umana, a scapito di risorse natural considerate infinite. Questi popoli nomadi, che a stento conoscevano la scrittura o l’agricoltura, erano pero’ riusciti a sopravvivere, probabilmente con meno confort e in numeri minori dei popoli cosiddetti civilizzati, ma in armonia con l’ambiente circostante. Nel XXI secolo, il loro messaggio, ora divenuto moderno, non e’ mai cambiato: la terra ci e’ data in affido e non deve essere sfruttata oltre misura.

Wednesday, April 13, 2011

Utah


In Utah e’ pieno di mormoni, montagne e terra rossa. Zona spettacolare ma inospitale, colonizzata dai pionieri molto religiosi che dalla capitale, la citta’ sul lago salato, hanno errato cercando i posti meno impervi per coltivare la terra o allevare vacche. I mormoni sono una setta cristiana poligama e un po’ fanatica, nata nel 1800 in America e rifugiatasi qui nelle montagne dopo essere stata cacciata dalla costa est (quella vicina all’Europa), dove era nata. La terra arida, la scarsita’ d’acqua, e le temperature estreme non hanno aiutato questi poveri cristiani, che, spesso, hanno vissuto in isolamento, senza strade o elettricita’, fino alla meta’ del ventesimo secolo.
Con la modernita’, i pionieri si sono spostati in zone piu’ fertili ed un nuovo grande business e’ incominciato: quello del turismo. La maggior parte dei parchi piu’ belli dell’America (secondo me) si concentra da queste parti, a distanze relativamente accessibili (in termini americani: si parla di 100-200km tra un parco e l’altro). Ogni parco protegge una zona di particolare interesse, tipicamente piena di canyon o di formazioni rocciose spettacolari, e offre le solite possibilita’ di passeggiate, ma anche un’esplorazione piu’ confortevole in macchina, attraverso i visitor center e i numerosissimi punti panoramici.
Io giro un po’ tutti questi parchi, anzi spesso apprendo dell’esistenza di alcuni minori piu’ o meno “sulla strada” e faccio volentieri qualche deviazione per andarli a visitare, seppure velocemente. I piu’ famosi hanno nomi celebri: Arches, Bryce, Zion, ma esistono anche Canyonlands, Dead Horse, la Valle dei Goblin, Capitol Reef: ognuno bellissimo, decisamente meritano piu’ tempo di quanto io gliene possa dedicare.
Canyonlands, per esempio, e’ gigantesco e offre centinaia di km di strade sterrate da percorrere in fuoristrada; Capitol Reef, offre una bella testimonianza delle difficilissime condizioni di vita dei pionieri, che si piazzavano nel fondo dei canyon seguendo l’acqua, e cercavano qualche spazio pianeggiante per piantare qualche melo; la Goblin Valley e’ praticamente sconosciuta agli americani e visitata in prevalenza da europei (infatti me ne aveva parlato un collega olandese).
La maggior parte dei parchi e’ a quote abbastanza basse, intorno ai 1000m, dove la temperatura e’ mite e piacevole (in Aprile). Altri, intorno ai 2000, hanno ancora la neve; a volte, per superare una catena di monti si valica un passo a tremila metri. Costruire una strada da queste parti non e’ affatto facile e infatti alcune autostrade sono state realizzate solo nell’ultimo dopoguerra, ponendo fine all’isolamento di molte comunita’ di pionieri.
Penso che sia piuttosto tedioso raccontare le mie camminate, e preferisco caricare qualche immagine. Diciamo che ho scorrazzato per molti sentieri, mi sono arrampicato su molte rocce rosse, ho guidato per moltissimi km e ho visto panorami mozzafiato. I posti piu’ incredibili sono anche quelli piu’ famosi (e pieni di gente in estate): guidare attraverso la monument valley o Arches, la ferrata che porta sulla cima di un’aerea “pinna” di roccia a Zion, una camminata nei labirintici pinnacoli di roccia di Bryce, dove la neve si scioglieva e formava dense pozze di argilla rossa, che si attaccava tenacemente ai miei scarponi (mi sono dovuto comprare una spazzola per farli tornare decenti).

Monument Valley

Monument Valley

Monument Valley

Monument Valley

Monument Valley

Arches

Arches

Arches

Arches

Arches

Arches

Arches

Arches

Arches

Dead Horse

Canyonlands

Canyonlands

Canyonlands

Goblin Valley

Goblin Valley

Goblin Valley



Bryce

Bryce

Bryce

Bryce

Bryce

Bryce

Bryce

Bryce

Bryce

Zion

Zion

Zion

Zion

Zion - Cresta con ferrata

Zion

Zion

Zion

Zion

Zion