La citta’ degli angeli conta circa 15 milioni di abitanti, sparsi su un’area di cento km di lunghezza, stretta tra montagne lussureggianti e l’oceano. Questo mostro urbano e’ diviso in una miriade di quartieri, alcuni famosi altri meno, con scarsissimo mescolamento: i ricchi con i ricchi, i neri con i neri, i messicani con i messicani. Il quartiere piu’ famoso e’ Hollywood, sembra gia’ un po’ di conoscere questi posti, visti e stravisti nei film e telefilm prodotti qui: la scritta a caratteri cubitali sulla collina, il Viale del Tramonto (Sunset Boulevard), Mulholland Drive cosi’ come raccontata da David Lynch, Beverly Hills, Bel Air.
Le dimensioni sono tali da scoraggiare ogni spostamento in bicicletta o con mezzi di trasporto (peraltro molto carenti): l’unica via d’uscita e’ avere una macchina e macinare miglia e miglia nella ragnatela di autostrade a sei corsie che percorrono la citta’ in lungo e in largo. Fortunatamente, nonostante il traffico sia molto intenso e molto piu’ arrogante che nel selvaggio west, non scende mai a livelli italiani.
Io sto a Santa Monica, che e’ un quartiere sull’oceano, per straricchi. Sono a casa di Katie, che a sua volta e’ ospitata da amici di famiglia (altri ricchi ebrei, ovviamente), che pero’ questa settimana sono via, e ci lasciano soli con Clementina, la domestica messicana, e Yufi, un cane amichevole e peloso. Spesso alla mattina altre domestiche messicane vengono a chiacchierare con Clementina e portano i cani dei loro padroni a giocare con Yufi, cosicche’ ognuno, in questo mondo “basso”, sia contento nelle loro vite parallele a quelle dei ricchi, in una mirabile simbiosi. Tra parentesi: il mio look latino spopola tra le signore messicane, che mi lusingano paragonandomi ad Antonio Banderas, ad un cantante mariachi con stivali da vaccaro e ad un attore di soap opera messicano. Chiaramente, le facce yankee interessano meno.
Los Angeles non ha un “centro”, un posto dove la gente passeggia per strada. E’ soprattutto una citta’ residenziale, con pochi condomini ma enormi quartieri formati da case squallide, casette, belle case, ville, villone o megaville da miliardari. A Santa Monica, per farsi un’idea, una casa costa dai 2 ai 4 milioni, e sfigura rispetto alle grandi proprieta’ di Bel Air o di Beverly Hills; in compenso, a Sudest, ad una cinquantina di km di distanza, ci sono zone molto malfamate, famose per gang di persone di colore (vedi la musica “gangster rap”) e per il traffico di droga. L’inquinamento e’ palpabile: nell’aria c’e’ una foschia milanese che impedisce di vedere lontano nonostante il cielo sia blu, e contrasta incredibilmente con i cieli tersi di cui l’Utah va giustamente fiero.
Ogni quartiere e’ un po’ una citta’ a se’ (molti infatti non fanno parte del comune di Los Angeles vero e proprio), con i suoi negozi, e la sua atmosfera. Tutti molto simili, in verita’, con la vicinanza al mare o alle colline a far salire di valore gli immobili. L’Universita’ piu’ grande, dove faccio il mio talk, sta nel quartiere di Westwood, a soli 10km dalla spiaggia, popolato da bianchi abbastanza ricchi.
In generale, la citta’ e’ cara, e la grande maggioranza della sua economia gira intorno al settore dell’”entertainment”, o divertimento: film, telefilm, videogiochi, un industria che ha in Hollywood la sua capitale mondiale e crea un indotto che da’ lavoro a milioni di persone: imprenditori, ragionieri, avvocati, giu’ giu’ fino a guardie del corpo, autisti e personale di servizio. Passeggio nella zona degli studios, oberata di turisti, che scattano fotografie alla “wall of fame”: la collezione di almeno 2000 artisti che hanno lasciato l’impronta delle loro mani sul marciapiede, all’interno di una stella disegnata. Riconosco celebrita’ di ieri e di oggi. Quando mi fermo a prendere una bibita, al tavolino vicino al mio si svolge una scenetta che ho visto solo nei film: ragazze carine che si specchiano e si rifanno il trucco, cercando la perfezione per un provino imminente. Concentrate su se stesse, per alcune di esse la giornata di oggi puo’ cambiare loro la vita, o almeno garantire qualche soldo per arrivare a fine mese. Per la strada si vendono le cosiddette “star maps” che non sono, come pensavo, mappe celesti per osservare il firmamento di notte (di giorno? in citta’?), bensi’ delle cartine che spiegano dove le celebrita’ di Hollywood abitano e si fanno vedere, insieme ai posti dove alcuni film famosi sono stati girati. La densita’ e’ impressionante. In pochi isolati si puo’ passare dalla location di ghostbusters alla villa di Jack Nicholson al ristorante dove Jennifer Aniston ama fare colazione. Il popolino le compra e insegue la fugace vista di un’attrice o di un attore a cui magari chiedere un autografo o una fotografia. Nessuna sorpresa, poi, se le star si nascondono. Tra l’altro, tutta la parte della citta’ che ho visto ha quell’atmosfera un po’ milanese, eleganza ostentata, raffinatezza snob e ricchezza diffusa che fa molto Santa Barbara e contrasta un po’ con l’alternativa San Francisco. I lavori piu’ umili sono quasi tutti in mano agli ispanici e ai neri, e non c’e’ certo posto qui per i cowboy (o vaccari): tornando da due settimane molto rurali, in cui la sera avevo rami nei capelli, fango sugli scarponi e graffi sui gomiti, mi sento un po’ fuori posto. Io preferisco la campagna.
La citta’ e’ punteggiata di cose interessanti da visitare e da bei musei, se si ha la pazienza di guidare per qualche decina di km nel traffico: la maggior parte delle collezioni di arte derivano da lasciti di persone straricche, che magari vi aggiungono la loro villa con parco per destinarla ad uso pubblico. Il sistema sembra funzionare bene: la villa degli Huntington, a Pasadena (dove c’e’ il Caltech di Feynman) e’ diventata una bellissima biblioteca con codici antichi, e il parco e’ stato trasformato in un giardino botanico. La collezione del petroliere Paul Getty e’ diventata un futuristico museo in cima ad una collina con viste spettacolari sulla citta’.
Rifletto su questo modello di musei, a confronto con quelli europei, prevalentemente statali, che spesso mostrano opere d’arte legate al territorio: qui il nucleo originario e’ una collezione che, per quanto grande sia, puo’ essere solo un piccolo museo. Insieme alle opere vengono lasciati anche dei soldi, che sono gestiti da una fondazione. La fondazione cerca di racimolare altri soldi con biglietti e investimenti, e convince altri ricchi a donare opere o verdoni, in cambio di un’imperitura targa nell’entrata principale. Le sovvenzioni private funzionano meravigliosamente: il numero di donatori oltre il milione o i 5 milioni di dollari e’ nutrito.
E’ un po’ come nelle universita’: un ex-alunno fa carriera, diventa ricco e subito sponsorizza la costruzione di un nuovo edificio, o finanzia una posizione di dottorato a suo nome. Le mie esperienze con i musei statali di Los Angeles sono miste: bellissimo e enorme il museo di arte della contea, edifici progettati da Renzo Piano, tante installazioni moderne (sul tipo “la davo al mio falegname e con 30000 lire me la faceva meglio”), e tanta arte orientale; ma anche una villa di Frank Lloyd Wright, gestita da una scuola d’arte che stenta a trovare i fondi per restaurarla e fatica a racimolare abbastanza turisti per pagare le spese.
Un po’ come Londra, Los Angeles e’ una citta’ avvolgente e tentacolare, non bella ma viva, in cui si rischia di rimanere intrappolati perche’ tutto e’ a portata di mano. A differenza della capitale inglese pero’, il clima e’ ottimo (20-25 gradi tutto l’anno) e i deserti e le montagne sono vicini, se si ha voglia di prendere la macchina. Io non ci vivrei a causa di quella certa puzza sotto il naso diffusa tra la gente, ma posso capirne il fascino di chi ne ha cantato le lodi.