Thursday, March 31, 2011

Riserve


Superato il confine e reciso il cordone ombelicale con la California, sono entrato in Arizona, lo stato famoso per i deserti, il grand canyon, i cieli azzurri che coprono tutto l’orizzonte e i film western vecchio stile. Infatti, come in tutti i film western che si rispettino, non possono mancare gli indiani, che in questa zona sono numerosi e hanno le loro piu’ grandi “riserve”.
Dopo essere stati cacciati delle terre in cui hanno vissuto per millenni dai coloni europei, ai “nativi”, come li chiamano qui, sono state assegnate delle zone “in autogestione”, con una certa autonomia amministrativa e legale. Spesso sono terre inospitali e aride: un tempo, piccole quantita’ di uomini (soprav)vivevano qui piu’ o meno in equilibrio con la natura. Il contatto con la “civilizzazione” non e’ stato molto positivo per questi popoli, che rapidamente hanno assorbito alcuni aspetti del modo di vivere del primo mondo, ma senza la mentalita’ che ha spinto gli europei a “scoprire” l’america.
Un po’ come gli africani decolonizzati, gli indiani non se la passano molto bene nelle riserve, nonostante i grandi sgravi fiscali governativi. I villaggi sono pochi, remoti, spesso poco curati, con strade non asfaltate, case semiabbandonate, intere famiglie residenti in roulottes, servizi solo essenziali. Portando avanti il paragone, mi ricordano molto alcuni villaggi africani che ho visto qualche anno fa, e i colori rossastri calzano a pennello.
Respiro una profonda contraddizione tra la sedicente superiorita’ dell’uomo bianco, che ha saputo creare un paese prospero e alla guida del mondo, e l’apparente mancanza di iniziativa di queste tribu’, che forse si sono rassegnate ad essere stranieri nella propria terra (occupata per millenni) ed si ritrovano confinate in una specie di gabbia dove il welfare e il senso di colpa nazionale provvede alle loro necessita’.
Con la macchina faccio un giro infinito nella zona Navajo e quella Hopi, gli Apache stanno 300 km piu’ a sud. Facce schiacciate, inconfondibili, villaggi squallidi e molto lontani, gente che cammina lungo l’autostrada facendo l’autostop. La riserva Navajo e’ la piu’ grossa e ha moltissima autonomia: addirittura non aderisce al fuso del resto dell’Arizona, ma si adegua a quello degli stati vicini, creandomi una certa confusione. Le maggiori entrate vengono da un po’ di turismo e dalla vendita di artigianato locale, forse uno dei pochi legami con un passato ormai remoto. Dormo in un hotel Hopi (l’unico con ancora posto a Tuba City), dove chiacchiero un po’ con i locali, che sono molto gentili e mi spiegano i simboli rupestri sulle rocce e i famosi tappeti con motivi geometrici (che qui sono ovunque). Apparentemente, alcune riserve hanno molti problemi di alcolismo, disoccupazione e violenza minorile, mentre altre sono riuscite a diventare benestanti aprendo casino’ e sfruttando l’esenzione dalle tasse americane.
Con grande stupore, scopro che in queste zone e’ fiorita la civilta’ precolombiana nordamericana piu’ antica: tra il 700 e il 1300 dopo cristo una rete di villaggi legava le zone piu’ fertili di questi altopiani, e si possono ancora visitare i resti di alcune strutture in muratura (capiamoci, questa e’ l’America: qualsiasi cosa piu’ vecchia di 300 anni e’ unica), comprese delle famose case costruite nelle fessure dei canyon. Suona come una bella nuova avventura, a cui mi dedichero’ nei prossimi giorni.









Tuesday, March 29, 2011

Parchi Naturali


Il concetto americano di parco naturale, soprattutto qui nel selvaggio west, e’ molto diverso da come me lo aspettavo. Un parco naturale e’ una grande area protetta, in cui non si puo’ edificare o vivere: vi si accede attraverso una o piu’ strade, dove si arriva ad una barriera, e si paga un pedaggio. I prezzi sono irrisori: da $8 a $25 per macchina per settimana, abbonamenti annuali intorno ai 30-40 e un convenientissimo pass di un anno per tutti i parchi americani a $80.
A poca distanza dalle entrate si trova un visitor centre, dove gentilissimi rangers ragguagliano i turisti sulle condizioni meteo e dei sentieri, e sulle cose da vedere. Sempre ci sono cartine a disposizione, acqua potabile (fondamentale per riempire le borracce nei deserti), quasi sempre grandi e chiari pannelli illustrano la fauna, la flora e la geologia del parco, e a volte ci sono veri e propri musei o piccoli cinema per vedere filmati illustrativi. Gli affabili ranger organizzano attivita’ e lezioni all’aria aperta durante il giorno. Spesso ci sono uno o piu’ campeggi a disposizione, molto spartani: piazzole con qualche bagno a fossa biologica (ma pulitissimi e forniti di carta igienica); non si puo’ prenotare, ma in questa stagione si trova posto facilmente, basta compilare un modulo, mettere $10 in una busta e piantare la tenda.
Il parco si gira in macchina, con limiti di velocita’ bassissimi e ferrei che danno l’impressione di essere su una specie di trenino panoramico. Nei punti di maggiore interesse ci sono parcheggi o piazzuole per accostare, con altri pannelli illustrativi, metodicamente segnalati sulla mappa.
I sentieri sono elencati e caratterizzati con dettaglio maniacale: lunghezza in miglia, dislivello, descrizione, bagni all’attacco. In generale, le camminate sono di una facilita’ sconvolgente, alcune addirittura accessibili alle carrozzelle. I ranger, d’altro canto, sono terroristici: non vogliono avere nessun problema con persone che si mettono nei guai, quindi esagerano grandemente la difficolta’ e le pessime condizioni di un sentiero, anche quando basta un’esperienza minima per cavarsela senza problemi.
Un grande risultato: portare la natura alla portata di tutti, renderla accessibile agli handicappati (parcheggi e bagni separati ovunque), sensibilizzare la gente sui problemi ecologici. L’effetto collaterale e’ pero’ il rischio di trovarsi turisti obesi con coca cola e patatine su un sentiero impegnativo e poi doverli andare a salvare. Da qui il terrorismo, compresi macabri pannelli a descrivere i sintomi della disidratazione, del congelamento, o a spiegare perche’ qualcuno e’ morto proprio su questo sentiero.
Mi vengono in mente i nostri rifugisti, che (a volte con non poca incoscienza) spediscono camminatori non esperti su sentieri esposti, impegnativi o anche solo molto faticosi con una pacca sulla spalla e un forza e coraggio. Forse la differenza sta nella convinzione diffusa da noi che la montagna e’ un ambiente pericoloso, da affrontare con attenzione, equipaggiamento adeguato, spesso al di la’ delle possibilita’ di un neofito. Qui invece, si puo’ tranquillamente scendere dalla macchina, fare cento metri a piedi, avere una vista bellissima, scattare una fotografia, risalire in macchina e ripartire: la montagna non e’ temuta quanto si dovrebbe.
La conferma mi viene dalla difficolta’ con cui vengono dati i sentieri: easy (facile) vuol dire al massimo 500m in piano; moderate (moderata difficolta’) sono un paio di km con qualche minimo su e giu’; strenuous (difficile) e’ qualsiasi cosa con piu’ di 300m di dislivello o 6km di lunghezza. La difficolta’ del sentiero viene quindi giudicata sulla fatica che si fa per percorrerlo, piuttosto che sui requisiti tecnici necessari per affrontarlo. Faccio un esempio: la salita al tipico rifugio orobico (1000m di dislivello, 3ore di cammino) e’ sempre considerata facile, anche quando  si fa una fatica boia, perche’ non richiede nessuna capacita’ particolare, a parte fiato e gambe. Escursionismo medio significa gia’ un sentiero esposto, qualche breve tratto attrezzato con catene o scalette e sicuramente richiede mancanza di vertigini e piede sicuro. Difficile sono poi le vie ferrate, che richiedono attrezzature speciali. Fate voi il confronto.

Sunday, March 27, 2011

Macchine


Nel sud-ovest, una delle zone piu’ scarsamente popolate degli stati uniti, senza una macchina e’ impossibile sopravvivere. Ancora piu’ che in California, le distanze sono sterminate. Molto spesso, e quasi sempre nelle riserve indiane, bisogna fare cinquanta o cento km per arrivare al primo “paese”, un posto con una pompa di benzina, un supermercato e una banca. Le condizioni di vita non sono facili in queste zone aride: se non c’e’ un po’ di petrolio o gas sottoterra le alternative sono poche: niente agricoltura, allevamento molto magro, infrastrutture limitate (onnipresenti gli scuolabus pero’, che si fanno non so quanti km per raccattare i ragazzini sparsi in questo deserto). Un po’ di turismo e molto artigianato indiano rappresentano le maggiori entrate delle zone piu’ malmesse.
Mi sono chiesto: che macchine usano le persone da queste parti, che certo non nuotano nell’oro? Magari una macchina piccola, per risparmiare? Certo, le quattro ruote motrici sono piuttosto utili sulle strade sterrate e polverose, soprattutto quando piove. Esiste un emulo della mitica panda sisley quattroperquattro? Assolutamente no: le macchine sono piu’ grandi che mai. I suv, ma soprattutto gli enormi camioncini aperti spopolano tra i nativi e i cowboys.
Chiaramente risparmiare sulla benzina (che qui costa meno che in California, stiamo sui 60 centesimi al litro) non e’ una priorita’, anche per chi e’ alle strette. Perche’? Perche’ una macchina piccola, risparmiosa e magari 4wd non potrebbe funzionare? Faccio qualche ipotesi, ma rimango confuso:
1) Su queste strade gigantesche, con queste distanze infinite, nessuno vuole incastrarsi in una macchinina minuscola, Qui si guida per ore ed ore come seduti sulla poltrona di casa, con la cocacola e il panino (si possono tenere bottiglie di alcolici solo nel bagagliaio), a 90 all’ora. Il motore enorme non serve quindi per andare piu’ veloci (se ti beccano ti arrestano) o per superare pendenze impossibili, ma piuttosto per assicurare e un confort in abitacolo da grand hotel.
2) Se uno deve guidare per tre giorni, non vuole dover pensare a quale bagaglio portare, a quale valigia entri nel bagagliaio, specialmente se c’e’ una famiglia di mezzo. I transatlantici locali garantiscono una capacita’ di trasporto enorme, che viene molto comoda se hai cose come tavole da surf o un cervo a cui hai sparato dalla strada per farti la bistecca a casa.
3) L’effetto status symbol. Cosa pensereste, in Italia, di una persona che mangia pane e scatolette due volte al giorno tutti i giorni? Che c’e’ qualcosa che non va. Che non vuole cucinare e non apprezza il buon cibo. Che un po’ si comporta come un barbone, lasciandosi andare. Ora, non so se il paragone regga, ma rimango dell’idea che la macchina grande rimanga un simbolo dell’America a cui nessuno vuole rinunciare, il simbolo materiale di un’opulenza raggiunta. La Fiat Panda sarebbe un po’ l’equivalente di una degradazione sociale, che nessuno, specialmente tra le classi piu’ povere, vuole accettare.

Deserti


Los Angeles e’ un deserto di cemento, piu’ di una decina di milioni di abitanti sparsi su un’area enorme, con le loro villette, le palme, le spiagge, i quartieri per ricchi come Beverly Hills, le malfamatissime periferie per neri, e Hollywood con gli studios e le star.
Per il momento, la mia macchinina super-economy (una specie di punto, o di clio, che decisamente sfigura di fronte ai transatlantici americani, ma mi da’ un’aria molto europea ed ecologica) mi porta per miglia e miglia dalla costa verso l’interno, attraversando almeno 50 (cinquanta!) km di citta’ ininterrotta, con autostrade a 5 corsie spesso intasate di traffico, tangenziali su tre o quattro livelli che danno la stressante impressione di essere su un ottovolante, o parte di un videogioco dove tutti corrono in tutte le direzioni e a tutte le altezze.
Gradualmente, il panorama diventa piu’ secco: le palme lasciano il campo agli eucalipti e alle querce, poi alla macchia mediterranea, poi a vegetazione ancora piu’ sparsa, fino a quando un iconico cartello stradale segnala “Indio and other desert cities”, posti ormai lontani dalla civilta’ (siamo solo a 150km da Los Angeles pero’!) che non meritano neanche un nome. La mia prima destinazione di questo road trip nel selvaggio west sono i deserti, e in particolare due parchi naturali, con due tipi di vegetazioni molto diverse.
Il cielo e’ limpido, ma ci sono nuvole, la sera piove (nel deserto!) e fa freddo, siamo intorno ai 1000m di altezza. A volte pianto la mia tendina nei campeggi dei parchi naturali, quando fa troppo freddo prendo una stanza nei motel nelle cittadine intorno alla zona protetta, come l’iconica Yucca Valley, una striscia di case lunga una decina di km, qualche supermercato, molti fast-food, pompe di benzina e un caffe’ molto alternativo. Il panorama e’ quello che ci si aspetta nelle zone aride: pochi alberi, molte spettacolari formazioni rocciose granitiche, cespugli bassi e polverosi, e la commozione di vedere una tumbleweed (“l’erba che rotola”, quelle specie di covoni che si vedono spinti dal vento nei film western) attraversarmi la strada.
Tra gli alberi spicca il Joshua Tree, l’albero di Giosue’, una specie di palma (anche se botanicamente appartiene ad un’altra famiglia), bassa, con dei ciuffi di foglie aguzze verso la cima dei rami tozzi, un tronco peloso e una forma vagamente spettrale. In alcune zone formano dei veri e propri “boschi” con un albero ogni dieci metri. Vennero chiamati cosi’ dai pionieri in segno beneaugurante (Giosue’ e’ il profeta che porta gli ebrei nella terra promessa dopo l’Egitto). Frotte di rocciatori arrampicano sui grossi blocchi di granito.
Ci sono due tipi di deserto da queste parti: quello di tipo “Mojave” ha i joshua trees, si trova tra 1000 e 1500 metri, e’ roccioso e molto freddo (d’inverno la temperatura puo’ scendere piu’ di 10 gradi sotto lo zero, e quando ci sono io c’e’ un vento gelido che leva la pelle). L’altro deserto e’ di tipo “Colorado”o “Sonora” e si estende a sud fino al Messico, e’ piu’ caldo, a quota piu’ bassa e una vegetazione fatta per la maggior parte di cactus e piante grasse di ogni specie e forma, ben arrangiate dai gestori del parco che hanno creato percorsi floreali.
Anche la fauna e’ interessante: molti topolini teneri cercano di farsi mettere sotto dalla mia macchina, ci sono specie di marmotte magre che stanno sull’attenti ai lati della strada, conigli con orecchie molto dritte, e anche coyote, poco piu’ grossi di volpi. Apprendo con emozione che gli uccelli di corrono, quelli che Wil Coyote cerca disperatamente di catturare esistono veramente! I roadrunner sono piccoli uccelli con lunghe zampe che corrono come forsennati per sfuggire ai predatori, proprio come nei cartoni. Anche il paesaggio e’ molto simile. Purtroppo non ne vedo nessuno.
In questa specie di paese delle meraviglie si puo’ vedere di tutto, spesso direttamente dalla macchina o con brevi passeggiate non impegnative: colate di lava nere su cui crescono cactus ciccioni a barile e sbocciano minuscoli fiorellini gialli, dune di sabbia da salire a piedi e scendere a rotta di collo, laghi salati prosciugati che lasciano distese bianche a perdita d’occhio, una localita’ termale chiamata Zzxzy (pronuncia zizex) per essere sempre l’ultima sulle guide, la faglia di Sant’Andrea, giu’ al livello del mare da un punto di osservazione a 1500m, montagne alte di cenere indurita che sembrano vulcani spenti, stazioni ferroviarie nel nulla, e, udite udite, uno strato di neve che copre i cactus nelle zone piu’ alte. Volete mettere che bello?















Thursday, March 24, 2011

Hearst Castle


Appena sotto il Big Sur, sorge un castello, costruito da un certo William Hearst. Perplessita’. I castelli in Europa venivano creati dai nobili per difendere la popolazione, o dai re per divertirsi. In America questa classe sociale non e’ mai esistita: cosa ci fa un castello qui? Fortunatamente, la visita guidata risponde a questa e ad altre mie domande, oltre ad offrire un’interessante prospettiva sull’America.
William Hearst era una specie di Silvio Berlusconi americano: proprietario di riviste, giornali, case cinematografiche, un impero mediatico in parte ereditato dal padre in parte espanso da lui, con grande fiuto. Stiamo parlando della prima meta’ del XX secolo, Hearst sa intuire le possibilita’ dei nuovi mezzi di comunicazione (il telefono prima di tutti) e rivoluziona il modo di fare informazione, utilizzando uno stile piu’ aggressivo e sensazionalistico dei suoi predecessori. Diventa incredibilmente ricco, e decide di costruire una dimora sensazionale, sentendosi un po’ un re americano. Nella sua proprieta’ di 500km quadrati (!!!) sceglie una collina con vista oceano e ingaggia una meticolosa architetta, con cui descrive con minuzia ossessiva ogni dettaglio della costruzione, spesso cambiando le sue idee in corso d’opera. La riempie di oggetti antichi e capolavori, che paga una fortuna. Allestisce uno zoo privato (le pronipoti delle zebre originarie scorrazzano ancora libere per il parco), un ranch per produrre carne e latte, terreni per coltivare per frutta e verdura e un aeroporto privato.
L’effetto complessivo e’ un po’ disneyland, perche’ il maniero e’ recente, e lo stile spagnoleggiante, ma ha un suo perche’. La casa sembra una cattedrale, alla piscina mancano solo le ninfe e i tritoni vivi, il lusso e’ squadernato ad ogni angolo, con  un effetto generale che evita le stonature, e probabilmente ricorda quello che doveva essere una dimora regale in europa nel XVII secolo, con in piu’ le comodita’ moderne come elettricita’ e acqua corrente.
Hearst aveva quasi sempre ospiti famosi a casa (molti attori dalla vicina hollywood), li intratteneva alla sera, ma richiedeva loro un comportamento esemplare: ubriachezza o defezioni a cena non erano tollerate. Churchill lo defini’ un ragazzino viziato con un brutto carattere, alla presa con i giochi piu’ costosi del mondo. Io preferisco considerarlo una versione moderna del sogno americano, che, come Franco Cardini ha splendidamente catturato, ha due tipi di eroi: il pioniere che sfida la natura selvaggia e la vince, e il magnate, che crea dal nulla un impero economico e costruisce una fortuna. Confrontateli con i nostri eroi, i vari Garibaldi, Dante: in America gli intellettuali e condottieri stanno comunque un gradino sotto la scala sociale, forse perche’ non definiscono uno specifico americano.
Ultima considerazione: l’esibizione di questa opulenza esagerata sconfina facilmente nella cafoneria, e Hearst si arresta giusto un passo piu’ indietro. Lo stesso non si puo’ dire di molti altri californiani: ho visto molti piu’ tatuaggi, motorone scoppiettanti, autoradio ad alto volume e mancanza di gusto qui che non sulla costa est, sotto l’influenza dell’european chic.








Tuesday, March 22, 2011

Due argomenti leggeri


Oggi voglio parlare brevemente di due aspetti della vita quotidiana americana che mi hanno incuriosito per il contrasto con l’Europa.
I bagni
Diverse trappole attendono il turista europeo al confronto con i malvagi bagni americani. I wc sono sempre pieni d’acqua, suggerendo qualche forma di intasamento. In realta’ sono fatti cosi’, e cosi’ si usano: si depositano i nostri prodotti nella piscinetta, e un potente gorgo li risucchia nello scarico con rumore da idrovora. Completamente assenti gli scopetti (il che puo’ creare qualche situazione imbarazzante).
A casa di Linda e in alcuni motel, la bocca della doccia e’ piu’ o meno a un metro e mezzo di altezza, e non e’ regolabile. Dopo numerose torsioni e piegamenti, ho ottimizzato la procedura per farmi lo shampoo, che consiste nel sedersi sui talloni (un po’ come un lottatore di sumo prima di un incontro) sotto il getto, assicurare l’equilibrio puntando le ginocchia contro i lati del box, liberando cosi’ le mani per insaponarmi la testa.
Infine, i bagni in ambienti pubblici (universita’ o bar) spesso hanno dei box separati da paravento molto bassi, da cui una persona alta come me puo’ tranquillamente guardare in faccia e socializzare con il suo vicino mentre fa pipi’. La stereofonia e’ totale e ci si puo’ ragguagliare sulle condizioni intestinali del vicino, se si ha il coraggio di guardarlo in faccia quando esce.
I supermercati
Simbolo universale delle societa’ opulente e capitaliste, qui talvolta assumono forme estreme: la verdura e’ disposta in pile simmetriche, i sedani e le melanzane perfettamente incastrati tra di loro a formare un muretto a secco, le arance e le mele in gigantesche ziggurat incredibilmente stabili. A volte si sente un rumore come di gomma che si sgonfia: e’ uno spruzzino che irrora la lattuga e la verdura per tenerla fresca e luccicante.
Spesso le porzioni sono gigantesche: non sono mai riuscito a comprare meno di 4 brioches o un filone di pane. Le carte fedelta’ sono incredibilmente remunerative, e offrono sconti mostruosi. La mia spesa di 13 dollari passa a 7 con la carta di Linda (e se non l’hai con te basta che torni il giorno dopo con lo scontrino e ti danno i soldi indietro), forse un indice di quanto vogliano pilotare i consumi dei clienti? D’altra parte spesso le confezioni piccole e grandi di un prodotto costano uguale, suggerendo che i margini di guadagno siano molto alti
Infine, non ci sono, come mi aspettavo, scaffali e scaffali di pasti pronti, non piu’ che da noi. La ragione e’ che i prezzi dei supermercati sono molto alti e comprare gli ingredienti per cucinare non rappresenta un risparmio, neppure per le famiglie (esperienza tristemente personale quando ho realizzato che un panino, un pezzo di formaggio e un arancia costavano un buon 50% in piu’ di un pasto in zona universita’).  L’americano si trova quindi davanti alla scelta di mangiare ad uno dei diecimila tipi di fastfood presenti e risparmiare, oppure investire soldi in frutta e verdura, passare tempo a cucinare e mangiare sano. Inutile dire quanto sia poco popolare questa opzione tra gli studenti, gli squattrinati o semplicemente chi preferisce usare il tempo per fare altro.

Monday, March 21, 2011

Big Sur


Due fine settimana fa e’ partita un’altra gita spontanea, proposta da me e Marco, raccolta da Armita (Iran) e Julia (UK) e realizzata all’ultimissimo momento dall’unico dotato di macchina, Michael, professore tedesco dalla mascella sproporzionata che raccomanderei a qualunque regista per il ruolo di ufficiale nazista. La compagnia si e’ rivelata sorprendentemente ben assortita: Michael, un tedesco molto rilassato e amante del caldo, ha passato un anno a Roma da studente (“un casino” nelle sue parole) e ha il classico amore teutonico per il paese dei limoni, le due ragazze sportive e simpatiche.
Obiettivo: Big Sur, “il Grande Sud”, che in realta’ sta a nord di dove siamo noi. La parola indica una zona piuttosto che una localita’ precisa: una costa scoscesa e selvaggia (stile amalfitana, ma senza paesi) di circa 200km, percorsa da una stradina tutta curve, spesso a picco sul mare, piena di parchi naturali sull’oceano e spiagge. Il grande merito di questa zona e’ quello di essersi preservata dal turismo di massa (nonostante sia solo 150km a sud di San Francisco), probabilmente grazie a un’aura hippie e quasi mistica che l’ha resa famosa tra gli scrittori della beat generation. Ci si  trovano infatti solo campeggi, spartanissimi hotel, un posto in cui si puo’ dormire sulle piante, caffe’ con vista sul mare e musica ambient, una biblioteca dedicata ad Henry Miller, e una natura meravigliosa.
Il clima, rispetto a Santa Barbara, e’ molto piu’ umido, e la natura verdissima in questa stagione. Le spiagge si aprono tra gli scogli, enormi e vuote, e le onde rotolano maestose sulla sabbia bianchissima, creando l’ambiente ideale per il surf (e tremendo per la spiaggia all’italiana), tra i cavalloni e l’acqua gelida.
E sono proprio le spiagge ad essere le principali attrazioni: quella di Piedras Blancas ospita un’enorme colonia di elefanti marini, con i soliti pensionati volontari che danno informazioni. Ce ne sono circa 15000, e non si puo’ fino al mare proprio per non disturbarli. Una fila di corpaccioni grassi prendono il sole placidi con quell’espressione beata che hanno le foche quando dormono, e sembrano grandi quanto foche normali, finche’ un volontario ci spiega che stiamo guardando cuccioli di 4 settimane (tutti abbondantemente sopra il quintale). I maschi hanno quasi tutti lasciato la spiaggia (sono animali attivissimi, nuotano 15000km all’anno e si immergono fino ad un chilometro sott’acqua), ma ce  n’e’ ancora qualcuno. In effetti, si scorge una specie di sottomarino gigante, diametro di un metro e lunghezza almeno cinque, con un nasone a proboscide. Fa impressione, pesera’ due tonnellate e quando si muove sulla spiaggia e’ molto veloce (l’accesso e’ proibito anche per la pericolosita’ di questi bestioni): le lotte per l’accoppiamento, tra novembre e genaio, devono essere veramente spettacolari.
Ci fermeremo in molte altre spiagge: nel Julia Pfeiffer Burns park, dove una cascata finisce direttamente sulla sabbia, a Point Lobos, dove stazionano leoni marini e le bellissime e pelose lontre di mare, che nuotano sul dorso e aprono conchiglie con i sassi. Abbiamo saltato, per motivi di tempo, Pfeiffer beach dove dovrebbe esserci sabbia viola in altro paesaggio idilliaco.
Pernottiamo a Monterey, cittadina carina ma molto turistica (questa si’ invasa dalla gente della Silicon Valley), passando da Carmel, sede della missione dedicata a  San Carlo Borromeo (!). Il giorno dopo seguiamo il consiglio in uno dei rangers nei parchi e ci dedichiamo ad una passeggiata a Garrapata, che nessuno si fila ma dalle montagne si ha una bellissima vista sull’oceano e sulla valle dall’altra parte. Vegetazione a macchie, costellata di fichi d’india, ma intorno al ruscello crescono alte le sequoie: begli alberi, imponenti, il tronco dritto messo in evidenza da una chioma molto stretta. Dalla cima, si vedono in lontananza (con il binocolo di Julia e un po’ di fede) gli spruzzi delle balene che migrano verso nord.
Bel fine settimana, non solo per le bellezze naturali: visto che gli scienziati sono uomini in fin dei conti, le interazioni sociali contano molto. Due giorni a scarpinare, chiacchierare e condividere con altri scienziati porta naturalmente alla fatidica frase “se passi da (dove sto io), vieni a trovarmi!”, cioe’ fai un talk, parla con i miei studenti e facci sapere quello che fai, che poi andiamo a mangiare fuori a spese dell’universita’. Visto che mi stai simpatico, se troviamo qualcosa di sensato, cerchiamo di lavorare insieme. Le piu’ produttive collaborazioni nascono cosi’.















Saturday, March 19, 2011

Tempo di bilanci


E’ gia’ arrivata l’ora di partire da Santa Barbara. Ieri, venerdi’ pomeriggio, con efficienza e spietatezza americana, il mio nome sulla porta dell’ufficio e’ stato cambiato con quello del prossimo ospite, la mia cassetta delle lettere e’ sparita, e sono stato sollecitato a restituire chiavi e a scrivere un breve report sulle mie attivita’ scientifiche dell’ultimo mese. Con un velo di tristezza ho mangiato per l’ultima volta sotto gli eucalipti sulla scogliera sopra la spiaggia dell’universita’, e ho fatto il giro dei saluti.
Tempo di bilanci, dunque. Un’esperienza positiva sotto tutti gli aspetti. Pesante, intensa, questo campo di concentramento scientifico ci lascia molto stanchi e abbiamo tutti voglia di tornare a casa, ma, chi piu’ chi meno, abbiamo portato a casa qualcosa, se non altro il tiepido inverno californiano. Le settimane piu’ proficue per me sono state le prime, dove c’erano esperti nel mio microsettore, e dove sono riuscito ad iniziare nuove collaborazioni. Nella seconda parte gli interventi erano meno rilevanti, ho imparato cose nuove, ma non direttamente utilizzabili nel mio lavoro. In generale, l’arma vincente era l’atmosfera conviviale e piena di energia, dove tutti facevano domande e le discussioni nascevano spontanee. Il tutto agevolato da una struttura organizzativa impeccabile, un luogo quantomai ameno e un munifico stipendio extra. 
Il blog non chiude qui: oltre ad avere diverse cose di cui voglio ancora scrivere, saro’ in America ancora per un po’. Due settimane a zonzo per i deserti del sudovest (la natura e’ spettacolare qui, e i parchi di montagna sono sepolti dalla neve, quindi me ne vado dove in estate ci sono 50 gradi e ora solo 25), e qualche giorno all’Universita’ di Los Angeles dove mi hanno invitato per un talk. Mi sto quasi giocando le vacanze estive ma voglio cogliere l’occasione e visitare il piu’ possibile.
Chiudo con la bellissima osservazione di Renzo Piano alla trasmissione vieni via con me, qualche mese fa: “I giovani devono partire, per curiosita’, non per disperazione. E poi devono tornare. Devono partire per capire cos’e’ il resto del mondo, ma anche per capire se’ stessi. Perche’ c’e’ un’italianita’ particolare: noi siamo come nani sulle spalle di giganti, dove il gigante e’ una cultura antica che ci ha regalato una straordinaria, invisibile capacita’ di cogliere la complessita’ delle cose, articolare i ragionamenti, tessere arte e scienza insieme. E’ un capitale enorme. E per questa italianita’ c’e’ sempre un posto a tavola, in ogni angolo del mondo”.
Peccato che tornare sia quasi impossibile.

Friday, March 18, 2011

Forme moderne di monachesimo


Ultimo intervento sul filone “vita da scienziati”: discutendo con altri colleghi, abbiamo concordato che “la ricerca” (o “la scienza”, sempre immaginata come una specie di realta’ superiore a cui conformarsi) piu’ che un lavoro e’ una filosofia di vita. Cerco di spiegarmi.
Supponiamo di avere un negozio, o di lavorare in posta. Spesso puo’ essere fastidioso svegliarsi presto tutti i giorni, avere a che fare con colleghi o clienti molesti, o essere impegnati in compiti noiosi e ripetitivi. Alle cinque, o alle sette e mezza, pero’, la saracinesca si abbassa, l’ufficio si chiude, e ci si dedica alla propria vita privata, la famiglia, gli interessi, gli hobby, il relax.
Superficialmente, la ricerca puo’ sembrare una specie di paradiso: si puo’ andare al lavoro praticamente quando si vuole, si visitano un sacco di posti interessanti, e sicuramente non si fa alcuna fatica fisica. Molto spesso e’ difficile spiegare cosa facciamo, quasi impossibile vederne l’utilita’ pratica. Ergo: possiamo tenerci impegnati per una vita raccontandoci cose incomprensibili tra di noi, tra un mese in California e una conferenza a Parigi.
La grossa differenza, che in parte condividiamo con chiunque abbia un lavoro “a progetto”, e’ che, appunto, veniamo valutati soprattutto su quanto riusciamo a risolvere problemi in maniera creativa. Quanto tempo ci vuole? Impossibile a dirsi. Spesso si e’ impantanati per mesi prima di riuscire ad trovare una soluzione. In questi mesi veniamo si’ pagati con soldi pubblici, ma quasi sempre ci portiamo dentro il nostro problema, le nostre frustrazioni e i nostri dubbi, per ogni momento della nostra vita privata. “Staccare” richiede una fortissima autodisciplina che pochissimi hanno. Il tutto forse nasce da alcune peculiarita’ della ricerca scientifica, e cioe’ che 1) si ha a che fare con problemi complicati di cui nessuno sa la risposta (anche noi, nel 90% dei casi, non ci capiamo quasi niente) 2) lo si fa per passione e non per ritorno economico. E’ per questo che gli scienziati corrono il rischio di diventare persone noiosissime, appiattite sulla dimensione lavorativa da cui non si staccano mai, sempre pronti ad esercitare la loro capacita’ critica (da cui la bassissima percentuale di scienziati credenti, ben sotto al 10%) e il metodo scientifico nei problemi di ogni giorno (da cui l’etichetta di “geek” o “nerd” che mal si traduce in “secchione”, ma rappresenta piu’ un modo di pensare che non le ore passate sui libri). E non si diventa neanche ricchi.
Anche sui viaggi di lavoro ci sarebbe da dire. Io sono un po’ un’eccezione perche’ mi piace visitare posti nuovi e cerco sempre di associare un po’ di turismo alle trasferte, ma la maggior parte dei casi ci si riduce a fare viaggi lunghissimi (perche’ ci sono solo 5 gruppi al mondo che sono competenti nel tuo microsettore, e se sei fortunato ce n’e’ un altro nel tuo continente), per soggiorni brevi, spesso in posti senza alcuna attrattiva. Certo, e’ bello conoscere gente del posto che ti introduce ad un nuovo paese e te lo spiega acutamente, molto meglio che fare i turisti. Ma l’altra faccia della medaglia e’ che quando si va in vacanza spesso si pensa “oh c’e’ questo gruppo che lavora qui vicino, magari passo a fare un talk”, e voila’, la vacanza non e’ piu’ vacanza. Le conferenze, d’altro canto, possono facilmente diventare campi di concentramento scientifici (interessantissimi!) dove si vede il sole una mezz’oretta al giorno e si discute fino a tarda sera.
Nella mia esperienza, queste peregrinazioni scientifiche (o “networking”) sono fondamentali per la riuscita di un programma scientifico, perche’ anche gli scienziati sono uomini, e lavorano meglio se ti conoscono di persona, e soprattutto se gli stai simpatico (e gli italiani, qui, sono bravissimi). Ma questo stile di vita itinerante, questo traslocare in un diverso paese ogni pochi anni, pone un vincolo formidabile sulla vita sociale: non a caso, la scienza favorisce l’incesto, o meglio le coppie di scienziati. Forse perche’ solo un altro scienziato puo’ capire perche’ si accetti un tale stile di vita, senza neanche fare i soldi, o forse perche’ gli unici contatti sociali che abbiamo sono con altri scienziati.
Chiudo con un’osservazione sul posizionamento dei campus universitari scientifici, soprattutto in Europa, che quasi sempre si trovano nelle periferie estreme di grosse citta’, lontani da ogni attrazione e, spesso, da ogni forma di ristorazione diversa da una mensa orribile (c’e’ da dire che le universita’ americane funzionano con i “campus”, piccole citta’ nelle citta’, quasi autosufficienti e spesso molto piacevoli e verdi). Capisco che alcuni laboratori maneggino materiali pericolosi e debbano essere posti a distanza di sicurezza, e capisco anche che ai margini della citta’ si possano costruire edifici piu’ grandi e ad un costo molto minore. Ma, ancora una volta, i compromessi nel proprio stile di vita mi confermano che la scienza e’ una forma di monachesimo moderno, una vocazione a cui ci si arrende e solo con grandi rimpianti si abbandona.

Thursday, March 17, 2011

California girls


California girls
OK, “alleggeriamo” il blog con un argomento piu’ scanzonato, ma che non dubito suscitera’ l’interesse di una parte di chi legge. Non allego fotografie per evitare di essere citato in giudizio, ma cito alle parole dei Beach Boys (1965):
Well, East coast girls are hip                                    (Le ragazze della costa est sono alla moda)
I really dig those styles they wear                          (Vado matto per come si vestono)
And the Southern girls with the way they talk   (E le ragazze del Sud hanno un accento)
They knock me out when I’ down there               (Che mi manda in visibilio quando sono la’)
The Midwest farmer’s daughters                           (Le figlie dei contadini del Midwest)
They all make you feel alright                                 (Ti fanno tutte sentire accolto)
And the Northern girls with the way they kiss  (E le ragazze del nord quando baciano)
They keep their boyfriends warm at night          (I loro ragazzi di notte li tengono al caldo)
I’ve been all around this great big world             (Sono stato dappertutto su questo mondo)
And I’ve seen all kind of girls                                  (E ho visto ogni tipo di ragazze)
Yeah, but I couldn’t wait to get back in the States   (Ma non vedevo l’ora di tornare in America)
Back to the cutest girls in the world                      (Dalle ragazze piu’ carine del mondo)
I wish they all could be California girls                (Magari fossero tutte California girls!)
Gli autori, parzialissimi, qualche ragione la hanno. Nonostante il fuseau facile, l’infradito onnipresente, e i pantaloncini inguinali a scoprire cosciotti da rugbiste, le ragazze sono effettivamente molto carine. Di molti colori e etnie, ma prevalentemente bianche, hanno tutte uno stile omogeneo virante allo sportivo, ma privo degli orrori estetici nordeuropei. Molto sportive, le vedi correre, nuotare, camminare in montagna o andare in bicicletta ovunque, e i risultati si vedono: poche in sovrappeso, molte toniche e scattanti nonostante spesso di corporatura robusta. Curate, sanno esaltare la loro femminilita’ con trucco leggero e un colorito abbronzato di chi vive vicino alla spiaggia.
In generale, sono molto amichevoli, e tendono a reagire entusiaste quando rivelo di essere italiano. Spesso sono veramente interessate a fare due chiacchiere ai negozi o al bar, hanno un modo di fare un po’ ingenuo ma molto coinvolgente in generale non sanno cosa sia la timidezza, ma senza l’arroganza tipica americana di dimostrarti quanto sono brave.
3 esempi
1)   Linda, la mia padrona di casa, maestra, cinquantenne, rilassatissima e pazientissima, amichevole senza essere invadente, con il pallino degli impressionisti e della spiritualita’.
2)   Chantal, la cameriera di una mensa a cui vado ogni tanto, che e’ uguale a Penny del Big Bang Theory: carina ti saluta con entusiasmo genuino, e’ sempre pronta a chiacchierare e a regalarti un sorriso mentre ti porta da mangiare
3)   Thelma e Louise: le due signore in camioncino e camicia di flanella incontrate per la strada che ci chiedono della pelle di squalo come materiale antivirale mentre scorrazzano per le montagne
E qui mi fermo, e dopo attenta riflessione dichiaro il parziale accordo con i compagni Beach Boys, a patto di poterlo estendere anche alle Italian girls!

Wednesday, March 16, 2011

Effetto Lebowski


Questa e’ la mia prima volta sulla costa ovest degli Stati Uniti, e le differenze con la costa est, quella di New York e Boston, che conosco un po’ meglio, mi hanno subito incuriosito. Anzi, togliamo New York, che fa un po’ caso a parte, e concentriamoci sul resto, iniziando dalle cose ovvie: la costa est guarda all’Europa. E’ stata colonizzata per prima e ha gli insediamenti piu’ “antichi” degli Stati Uniti. Fino a poco piu’ di cent’anni fa, mentre Boston era una raffinata citta’ piena di cultura e di idee progressiste, al di la’ delle montagne rocciose c’erano solo rozzi contadini (i “pionieri”) e pistoleri analfabeti che cercavano di portare un vago sentore di ordine e civilta’ in spazi immensi e vuoti.
Ora che anche la costa ovest e’ diventata ricca e civilizzata, si e’ data un’identita’ un po’ complementare a quella dei cugini ad est (che stanno a 4000km di distanza), e secondo me l’hanno fatto ispirandosi alle terre a cui guardano: l’oriente. Cercando di ordinare una serie di impressioni e riflessioni delle ultime settimane, e’ come se questi americani avessero importato un po’ di filosofia orientale, un po’ di zen e un po’ di buddismo, magari respirati attraverso le loro enormi chinatown e, aiutati da un clima quasi mediterraneo, abbiano costruito un modello americano che fa dell’essere rilassati e amichevoli (“cool”, “mellow”) un valore altrettanto importante a quello panamericano del dimostrare quanto vali.
Avete presente il film di culto il Grande Lebowski, dei fratelli Cohen? In caso negativo, vergognatevi e andate a vederlo, meglio in lingua originale perche’ il doppiaggio e’ orripilante. E’ la storia del Sig. Lebowski, uno sfaccendato che passa il tempo girando in accappatoio, giocando a bowling e bevendo cocktails, che si ritrova impelagato in una serie di guai causati da un’omonimia. La sua attitudine e’ fatalista, irresponsabile, ma amichevole e positiva, rifiuta i conflitti e le domande esistenziali ed e’ amato dai semplici e inviso a coloro che amano l’ordine e la disciplina.  Un esempio perfetto dell’atmosfera che si respira qui, tra i barboni hippie che mi chiedono se l’era dell’informazione cambiera’ le nostre vite, i surfisti che cercano l’onda al tramonto e il proliferare di messaggi piu’ o meno sensati che vanno nella direzione: “non correre”. In questo paese, un buon consiglio.
Tutto quadra, dall’atmosfera creativa di San Francisco (Wall street e i suoi stressatissimi brokers sono lontani), agli artisti contemporanei (l’arte europea e’ concentrata sull’altra costa, quindi qui si devono inventare la loro), alle aziende della Silicon valley che producono software e oggetti “leggeri”, ultratecnologici (non acciaio o carbone), alla corrente beat e ai vari scrittori che si sono stabiliti da queste parte, fino all’attenzione per la natura e lo sport (a confronto con le azzimate e sofisticate vite urbane dell’altra costa).
E’ sempre America, non illudiamoci. Se non vali ti fanno fuori in quattro e quattr’otto. Ma devo dire che mi piace molto questa espansivita’ forse un po’ superficiale, questo rivalutare il concetto di tempo sopra il denaro, e questo clima soleggiato che spinge verso il contatto con la natura. Se mi trasferissi negli USA, verrei qui senza dubbio.

Tuesday, March 15, 2011

Ancora sulla scienza


Volevo ritornare su come la scienza e’ organizzata qui in America, e confrontare questo modello con quello europeo. La carriera inizia piu’ o meno in maniera simile, con un dottorato, che in Europa puo’ essere anche di soli 3 anni, mentre in America si ottiene solo al conseguimento di un numero sufficiente di risultati, tipicamente in circa 5 anni. Il dottorato si conclude con una tesi che viene difesa di fronte ad un comitato di esperti; il candidato deve aver pubblicato un certo numero di articoli su riviste scientifiche, che sono una misura della sua originalita’ e del suo lavoro, e devono superare il controllo rigoroso di uno o piu’ esperti del settore. Le riviste su cui si pubblica non sono assolutamente tutte uguali, ma ordinate secondo un controverso criterio chiamato “fattore d’impatto”: in generale, nei paesi civili, gli articoli nei giornali ad alto impatto (“Nature”, “Science”, giusto per citare i piu’ famosi), hanno un peso molto maggiore nel curriculum.
Si procede quindi nella grande maggioranza dei casi ad un contratto post-doc (2-3 anni), dove il giovane scienziato lavora in un altro gruppo, sotto la direzione di un altro professore, ma sperabilmente in maniera piu’ indipendente, arricchendo il gruppo con nuove tecniche e idee, e pubblicando nuovi articoli. I contratti postdoc sono abbastanza facili da trovare, non richiedono una tesi finale, e possono essere piu’ di uno, magari proponendo un progetto originale e chiedendo finanziamenti personali per aggregarsi ad un gruppo in maniera indipendente.
A questo punto c’e’ il salto, e la differenza tra i due continenti: si cerca una posizione a tempo indeterminato, o almeno un contratto da 5 anni in su, dove poter lavorare su idee nuove senza piu’ la direzione di un capo. Non ci sono molti posti disponibili, e la competizione e’ spietata. In America si chiamano “tenure tracks”: si e’ professori in prova per 5 anni, l’universita’ investe sul neoassunto, gli da’ fondi per la sua linea di ricerca (che viene descritta quando si fa domanda) con cui costruisce un gruppo che sviluppa le sue idee, fa lezione agli studenti dei primi anni, e scrive domande di finanziamento per espandere il gruppo verso nuove direzioni. Dopo 5 anni, lo scienziato viene valutato sulla soddisfazione degli studenti riguardo alle sue lezioni, sulla qualita’ della ricerca, e su quanti fondi sia riuscito ad attrarre. Se questi parametri sono tutti soddisfacenti, si viene confermati a tempo indeterminato. Altrimenti, ti cacciano.
E’ un periodo pesante per persone che hanno tra i 30 e i 40 anni: si lavora tantissimo con l’angoscia di essere lasciati a piedi (succede in circa un terzo dei casi, mi sembra), si viaggia moltissimo per fare pubblicita’ ai propri risultati e si fa tutto il lavoro extra per mettere in piedi una struttura di successo praticamente da zero. Conosco molte persone in questa situazione, e la maggior parte rimanda la famiglia a tempi successivi (soprattutto le donne), sperando in un partner giovane o in un orologio biologico comprensivo.
In Europa, invece, esiste la figura del “ricercatore”, che assume vari nomi nei diversi paesi. In generale difficile da ottenere (quasi impossibile in Italia), si viene assunti a tempo indeterminato, oppure anche qui per 5 anni in prova, si viene pagati meno che in America, non vengono dati soldi per creare un gruppo, ma bisogna far domanda per fondi di ricerca per pagare gli stipendi di eventuali dottorandi o postdoc. In generale i criteri per essere confermati sono piu’ leggeri, e la vita e’ un po’ meno stressante. Talvolta viene richiesto di aderire ad un programma di ricerca pre-esistente, che limita il campo di azione del ricercatore molto piu’ che  nel modello americano.
Cosa e’ meglio? Difficile da dire. Il sistema americano ti spreme come un limone, ma investe molto di piu’ sulla tua creativita’ e, in generale, produce scienza di livello piu’ alto erogando piu’ risorse ai meritevoli (e lasciando a piedi non solo i fannulloni, ma anche quelli che non vogliono correre). Quello europeo e’ un po’ piu’ attento alla qualita’ della vita dell’individuo, ma non offre le stesse opportunita’ e le stesse remunerazioni. Unicuique suum.

Monday, March 14, 2011

San Francisco


E’ sempre difficile cercare di raccontare una citta’  cercando di evitare un elenco di cose viste, che si possono tranquillamente trovare in una guida turistica. Scrivero’ piuttosto un paio di aspetti che mi hanno colpito, opinioni assolutamente personali su San Francisco, meta della nostra penultima gita del fine settimana.
Prima di tutto, qualche fatto: e’ una citta’ piuttosto grossa (dimensione di Milano) e piuttosto lontana da Santa Barbara, circa 500km a nord, facilmente raggiungibile con l’autostrada 101, la Pacific Highway che collega la costa americana da nord a sud. Deserta, e piuttosto noiosa, si intasata di traffico vicino a San Francisco, quando si attraversa la famosa silicon valley. Le uscite sono localita’ note a chiunque si occupi di informatica: Cupertino (sede di Apple), Mountain View (Google), Palo Alto (Universita’ di Stanford), Santa Clara (Intel), e molte altre.
Pochi chilometri piu’ in la’, San Francisco si trova su una penisola che chiude una grande baia, e’ circondata su tre lati da acqua, ed ha quindi un clima sempre fresco e piuttosto piovoso. La prima cosa che si nota sono le colline, il paesaggio mosso e le strade che si ostinano ad essere una griglia perpendicolare, creando pendenze paurose su cui si fatica anche a camminare: quando una macchina si tuffa in questi precipizi, sembra che scompaia nel vuoto: per parcheggiare serve un cuneo per evitare di finire giu’. Ottimi i trasporti pubblici, tra cui spiccano i tram storici riciclati da altre citta' (ci sono anche quelli milanesi!) e le filovie che risalgono le pendenze proibitivi, su cui si puo' viaggiare attaccati all'esterno.
Citta’ ricca, cara, fortemente multietnica, molto viva, piena di locali e ristoranti, con una grandissima popolazione orientale: oltre alla chinatown piu’ grande di america, c’e’ anche una japantown, un quartiere messicano (Mission) pieno di murales, uno italiano (North Beach), dove mi vedo Juventus-Milan mangiandomi ottimi gnocchi alla salsiccia, un coloratissimo quartiere hippie pieno di negozi alternativi e fumerie e uno dedicato alla cultura gay, con teatri e locali.
Al porto, alla fine di un molo, una colonia di leoni marini occupa delle piattaforme di legno, che ora sono di loro proprieta’. Vietatissimo dar loro da mangiare, sono animali in liberta’ e si devono arrangiare; per riprodursi si fanno una bella nuotata fino alle isole nei dintorni di Santa Barbara. I maschi si buttano giu’ dalle piattaforme a vicenda mentre le femmine dormono, sembrano addestrati da un circo, e hanno facce molto tenere, tra il solenne e l’assonnato.
Il centro (“downtown”) e’ il solito concentrato di negozi luccicanti, fiancheggiato dai grattacieli del quartiere finanziario, dove ci sono le banche, e da qualche museo carino, ma niente di piu’. Il terremoto del 1906 ha raso al suolo la citta’, che ora e’ tutta piena di casette di legno. Belli i parchi, immensi, degradanti sulla spiaggia e pieni di attrazioni e di zone pic-nic. Bellissimi i ponti (tra cui il famoso golden gate) che collegano la penisola con le altre parti della baia, tra cui spunta l'isoletta di Alcatraz.
Ma quello che rende San Francisco cosi’ speciale, secondo me, e’ l’atmosfera rilassata e creativa. L’equivalente europeo piu’ vicino potrebbe essere Amsterdam: una citta’ liberale, aperta, provocante, piena di artisti, librerie frequentate da gente che legge libri e li discute, iniziative sociali, un’enorme e feconda comunita’ gay, l’audacia di cercare verso nuove direzioni, che ha avuto un culmine 50 fa e di cui ancora si sentono gli echi. Infatti, qui e’ nato il movimento beat (su cui tornero’), con i vari Henry Miller, Jack Kerouac, artisti duri, sbandati, drogati, ma con un grandissimo talento e la determinazione ad sfidare le leggi della convivenza civile.
Sicuramente non una letteratura per benpensanti, ma che ben s’intona con una citta’ che lotta per i diritti delle minoranze e ha il coraggio di proporre cose nuove. Che e’ attiva, ma senza l’altezzosita’ e i ritmi forsennati della costa est. E tutto questo a stretto contatto con alcune delle idee piu’ originali e produttive della nostra societa’ moderna, che proprio qui sono state sviluppate, portando barcate di soldi ai loro inventori e generando una vera e propria nuova economia. Una combinazione estremamente interessante, che fa finora di San Francisco la citta’ che piu’ mi e’ piaciuta in America. Peccato per il clima piovoso.