Superato il confine e reciso il cordone ombelicale con la California, sono entrato in Arizona, lo stato famoso per i deserti, il grand canyon, i cieli azzurri che coprono tutto l’orizzonte e i film western vecchio stile. Infatti, come in tutti i film western che si rispettino, non possono mancare gli indiani, che in questa zona sono numerosi e hanno le loro piu’ grandi “riserve”.
Dopo essere stati cacciati delle terre in cui hanno vissuto per millenni dai coloni europei, ai “nativi”, come li chiamano qui, sono state assegnate delle zone “in autogestione”, con una certa autonomia amministrativa e legale. Spesso sono terre inospitali e aride: un tempo, piccole quantita’ di uomini (soprav)vivevano qui piu’ o meno in equilibrio con la natura. Il contatto con la “civilizzazione” non e’ stato molto positivo per questi popoli, che rapidamente hanno assorbito alcuni aspetti del modo di vivere del primo mondo, ma senza la mentalita’ che ha spinto gli europei a “scoprire” l’america.
Un po’ come gli africani decolonizzati, gli indiani non se la passano molto bene nelle riserve, nonostante i grandi sgravi fiscali governativi. I villaggi sono pochi, remoti, spesso poco curati, con strade non asfaltate, case semiabbandonate, intere famiglie residenti in roulottes, servizi solo essenziali. Portando avanti il paragone, mi ricordano molto alcuni villaggi africani che ho visto qualche anno fa, e i colori rossastri calzano a pennello.
Respiro una profonda contraddizione tra la sedicente superiorita’ dell’uomo bianco, che ha saputo creare un paese prospero e alla guida del mondo, e l’apparente mancanza di iniziativa di queste tribu’, che forse si sono rassegnate ad essere stranieri nella propria terra (occupata per millenni) ed si ritrovano confinate in una specie di gabbia dove il welfare e il senso di colpa nazionale provvede alle loro necessita’.
Con la macchina faccio un giro infinito nella zona Navajo e quella Hopi, gli Apache stanno 300 km piu’ a sud. Facce schiacciate, inconfondibili, villaggi squallidi e molto lontani, gente che cammina lungo l’autostrada facendo l’autostop. La riserva Navajo e’ la piu’ grossa e ha moltissima autonomia: addirittura non aderisce al fuso del resto dell’Arizona, ma si adegua a quello degli stati vicini, creandomi una certa confusione. Le maggiori entrate vengono da un po’ di turismo e dalla vendita di artigianato locale, forse uno dei pochi legami con un passato ormai remoto. Dormo in un hotel Hopi (l’unico con ancora posto a Tuba City), dove chiacchiero un po’ con i locali, che sono molto gentili e mi spiegano i simboli rupestri sulle rocce e i famosi tappeti con motivi geometrici (che qui sono ovunque). Apparentemente, alcune riserve hanno molti problemi di alcolismo, disoccupazione e violenza minorile, mentre altre sono riuscite a diventare benestanti aprendo casino’ e sfruttando l’esenzione dalle tasse americane.
Con grande stupore, scopro che in queste zone e’ fiorita la civilta’ precolombiana nordamericana piu’ antica: tra il 700 e il 1300 dopo cristo una rete di villaggi legava le zone piu’ fertili di questi altopiani, e si possono ancora visitare i resti di alcune strutture in muratura (capiamoci, questa e’ l’America: qualsiasi cosa piu’ vecchia di 300 anni e’ unica), comprese delle famose case costruite nelle fessure dei canyon. Suona come una bella nuova avventura, a cui mi dedichero’ nei prossimi giorni.
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